Mito e realtà del condottiero che si fece dittatore. Ma il traditore Bruto aveva la sua grandezza

Mai pubblicato in volume fino a oggi, questo testo rivela una profonda comprensione di Shakespeare

Mito e realtà del condottiero che si fece dittatore. Ma il traditore Bruto aveva la sua grandezza
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Fonti del Giulio Cesare, rappresentato per la prima volta nel 1599, sono le Vite di Plutarco nella versione inglese di Sir Thomas North (1579). Precedente ai grandi drammi shakespeariani (Amleto, Macbeth, Re Lear), a mezza via fra questi e le tragedie d'ispirazione storica che, come i due Riccardi, risentono ancora della maniera marlowiana, il Giulio Cesare per la brevità, la concentrazione e l'intenso interesse psicologico ha un posto a sé nell'opera dello Shakespeare. La cronaca e il dramma di famiglia che nel poeta avevamo conosciuti, o conosceremo, disgiunti, qui formano un blocco solo: senza che ne scapiti la tensione, ma tuttavia (ed è la modernità del dramma) con una sorprendente, e senza dubbio deliberata rinunzia a far centro su un'unica figura di protagonista. Chiaro nell'espressione, non ingombro di figure minori, quasi privo di «parti» femminili (solo col Timone d'Atene si avrà un dramma di «soli uomini»), volutamente classicheggiante nello stile, il Giulio Cesare ha un'unità che rivela, benché altri sostenga il contrario, la mano di un solo autore.

Vi manca un vero protagonista. Cesare, al quale essa s'intitola, è ucciso al terzo atto, e del dramma vero e proprio potrebbe costituire il semplice antefatto. Ma un antefatto esposto e non rappresentato avrebbe fornito sufficiente sostanza a un dramma ideologico in cui gli uomini incarnano principi più grandi di loro? Un mero contrasto verbale tra cesarismo e repubblicanesimo avrebbe potuto alimentare un'opera di poesia, e di poesia teatrale? Con un colpo d'ala Shakespeare ci ha presentato il Cesare vivo come un personaggio umanamente così carico di tare da rendere comprensibile, e in ogni modo non assolutamente odiosa, la figura dei congiurati; e ha fatto del Dittatore, dopo la morte, un essere che cresce, che diventa mito, per vivere, nell'immaginazione del suo popolo «tel qu'en lui même l'éternité le change». Solo così, ingigantendo l'ostacolo abbattuto, si poteva gettare una luce di grandezza anche sui cospiratori; solo così poteva Bruto sostituirsi all'apparente protagonista senza che la tragedia di idee perdesse la sua continuità.

Idealista, razionalista, loico (oggi diremmo anche laico), Bruto non è un uomo d'azione; più volte si oppone al buon senso del suo complice Cassio: quando lascia in vita Antonio, quando gli permette di parlare al funerale di Cesare, e allorché sceglie il momento peggiore per dare battaglia. Bruto è un profeta disarmato, un eroe che l'astratta ragione può condurre ai più gravi errori. Primo fra i primi quando si propone una causa, egli è uno di quegli uomini ai quali il genio della Storia (il successo) non può arridere. Prossimo parente di Amleto, pessimo conoscitore degli uomini, è quasi l'opposto di Cesare, possiede il tormento intellettuale che a questi manca, ma non ha la semplicità e il fascino dell'uomo intero. È un momento dialettico incarnato, non un uomo che le folle possano comprende re: e rovesciando Cesare egli non abbatterà il cesarismo che per una breve ora. È fedele alla verità storica questa raffigurazione di Bruto? Certo non è lontana da quella di Plutarco, ed è la sola che un poeta tragico potesse far vivere fino a noi. Accanto a Cesare e a Bruto sono altre figure di primo piano: Cassio, uomo di mente limitata, scaltro nel fomentare la ribellione, e forse la gelosia di Bruto, ma buon soldato, amico leale, capace di morire con una dignità che un ribaldo uno Jago non avrebbe mai conosciuto. E Antonio: anch'esso, e ben altrimenti, uomo di pochi scrupoli ma vero politico, moderno temporeggiatore portato a tutti gli espedienti, genio eminentemente pratico, capace di capovolgere a suo vantaggio una situazione compromessa, quando si accorge che i suoi nemici sono travagliati dal tarlo del dubbio. Non manca una luce di nobiltà neppure in Antonio, capace di comprendere l'altezza dei suoi rivali; come a nessuna delle figure di una tragedia in cui l'uomo, restando umano, ha quasi i caratteri di una terrestre divinità.

Tragedia «d'assieme», non legata alle virtù di un solo matadore della scena, e forse per questo non mai entrata nel

repertorio del Garrick, il Giulio Cesare ebbe sempre fortuna, in Inghilterra, nel sei e nel settecento. In Italia fu interpretato per la prima volta da Ernesto Rossi nel 1887, e più tardi dal Garavaglia, ammirevole Bruto.

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