Modernisti per finta

C’è un elemento unico, un filo rosso che lega le proteste dei valligiani per l’alta velocità, gli snobismi dei consigli comunali torinesi contro la Coca-Cola, le bucoliche e inutili domeniche a piedi, le proteste dei piloti dell’Alitalia che con una mano scioperano e con l’altra si prendono gli aumenti di capitale a carico del contribuente, l’ultima canzone di Jovanotti e il delirio fanatico per la parola che non si spiega di Adriano Celentano: l’antimodernità. Travalica le tradizionali divisioni ideologiche. O forse ne rappresenta l’essenza ultima. Non è solo di sinistra, anche se lo è principalmente. È infatti anticapitalista, antimercato, localistica. È una sorta di deformante piercing sulla faccia del progresso.
Chi ne capisce qualcosa, potrebbe definire questa vocazione all’antimodernità come il frutto marcio della morte delle ideologie. In un panorama in cui tutti sanno quali sono le cose giuste da fare, in cui l’ideologia non è più una struttura con cui interpretare e modificare la realtà, si coltivano le pulsioni più lontane e abiette. Tom Wolfe, che oggi si occupa del sesso nei college americani, ma negli anni Settanta scriveva Radical Chic e ci raccontava la nostalgie de la boue della ricca borghesia americana che corteggiava nei duplex di New York le pantere nere e il «mau mauing» delle tribù alla periferia della Grande Mela che chiedevano ai funzionari governativi programmi di aiuti economici a pioggia. Oggi la stessa nostalgia del fango, della polvere è in questa lotta disperata contro un progresso che continuiamo a dileggiare.
La scena di quella mamma che con cellulare al collo e il bimbo nello zaino si lamenta degli scavi della Tav in Val di Susa fa sorridere nella sua contraddizione. Gli americani l’hanno chiamata «sindrome Nimb». E cioè costruite e fate tutto quello che volete ma «not in my backyard» (non nel cortile di casa mia). Nei Paesi anglosassoni la sindrome ha un angolo pragmatico: «Costruisci pure la centrale nucleare, ma mi paghi, e a caro prezzo, il deprezzamento della mia villetta». Da noi la pulsione antimoderna purtroppo ha invece solo un tratto ipocrita e demagogico. Il comune di Torino si porta a casa i miliardi dello sponsor Coca-Cola per le Olimpiadi, ma il suo consiglio comunale la bandisce come bibita di sfruttatori. Si dimenticano del Cuba Libre, a proposito di ipocrisie, e di quello che le Olimpiadi stanno facendo in termini di disagi per l’area metropolitana. In Val di Susa i cittadini sfilano contro il tunnel mentre i sindaci trattano per ottenere 200 milioni di euro di indennizzi (asili, piscine pubbliche, e fanno bene) e a pochi chilometri di distanza si sta per costruire una diga monstre, il cui impatto ambientale non interessa nessuno.
E quei piloti dell’Alitalia, che come recita una pubblicità della compagnia «sono tra i migliori del mondo», che proclamano tre giorni di sciopero proprio quando tutte le famiglie italiane mettono mani al loro portafoglio per finanziare con 20 euro a nucleo il loro aumento di capitale. L’ennesimo.
Forse abbiamo sbagliato tutto. Queste non sono pulsioni antimoderniste. Certo percorrono la società, la inzuppano nelle sue proteste. Il lontano ricordo di un mondo che non c’è più affascina per i suoi colori sbiaditi.

Perché se fossero chiari in pochi lo rimpiangerebbero. Ma dicevamo, forse abbiamo sbagliato tutto. Qua non è la nostalgie de la boue. Qua forse si tratta della solita provocazione di quattro arrogantoni politicamente corretti e molto interessati. Che tristezza.

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