MURAKAMI Il mondo danza sul precipizio

Haruki Murakami è uno scrittore che non prevede vie di mezzo: o lo si ama o lo si ignora. Detestarlo è difficile, perché chi lo legge, prima o poi cade vittima del fascino languido e rapinosamente misterioso delle sue visioni. Da Sotto il segno della pecora (Longanesi, 1992) che lo fece conoscere in Italia, a Tutti i figli di Dio danzano, il volumetto di racconti uscito in questi giorni per Einaudi (ma pubblicato in Giappone nel 2000), tutte le storie dell’autore nato a Kyoto nel 1949, cresciuto a Kobe e che prima di diventare scrittore ha gestito per sette anni un piccolo jazz bar a Tokyo, introducono a un mondo assolutamente originale, in cui l’immaginazione danza, danza e danza ancora, dalla superficie degli oggetti quotidiani fino alle profondità dell’inconscio.
Tutto in Murakami si trasforma in simbolo, acquisisce un’anima e una storia, in un ibrido di scintoismo, potere mediatico e sesto senso (non per nulla David Lynch è uno dei suoi registi preferiti): il suo fermacarte con una testa di serpente dipinta diventa la «pietra d’ingresso» descritta nel suo ultimo romanzo uscito negli Stati Uniti, Kafka on the shore (che arriverà da noi l’anno prossimo), il gatto in porcellana che tiene sulla scrivania è finito in copertina del suddetto romanzo e anche i portatili su cui scrive, secondo un’usanza diffusa in Giappone, hanno un nome. «Ryota» il laptop dei romanzi, «Yataro» quello per le risposte alle e-mail dei fan.
Murakami-san, sta scrivendo un libro, in questo momento?
«Sto scrivendo un libro sulla corsa. Sono un podista devoto e negli ultimi 24 anni ho partecipato ogni anno a una serie di maratone. Così ho deciso di scriverci sopra e il libro si va trasformando in una riflessione su me stesso, come scrittore e come corridore. L’anno prossimo scriverò un nuovo romanzo, invece. In Giappone è appena uscita una raccolta di miei racconti, dal titolo Five strange tales from Tokyo e una raccolta di miei saggi sulla musica uscirà a novembre».
Quali sono le influenze della letteratura giapponese, classica e contemporanea, sulle sue storie e sulla simbologia?
«Nessuna influenza diretta, credo. Ma non so nulla delle influenze indirette».
Quanto c’è di autobiografico nelle sue storie?
«Tutte le mie storie sono fatte di pura finzione. Se avessi scritto qualcosa di autobiografico, sarebbe risultato così noioso che non l’avrebbe letto nessuno. Ma direi che sì, alcuni dettagli minori che si trovano nei miei libri sono piccoli episodi presi dalla mia vita. Solo alcuni mattoni, però, non tutto il palazzo».
Le visioni e i simboli dei suoi romanzi da dove vengono? Sogni, film, musica, religione?
«Quando scrivo, la storia affiora alla mia mente spontaneamente, direttamente dall’inconscio. Tutto quel che devo fare è aspettare che le storie incrocino la mia strada. E per aspettare, bisogna essere ostinati e avere fiducia».
Dopo l’attentato avvenuto nella metropolitana di Tokyo nel 1995, ad opera della setta Aum Shinrikyo, lei ha intervistato le vittime e i seguaci del culto e ne ha tratto un saggio, dal titolo Underground. A dieci anni da quell’evento, che cosa pensa del diffondersi della minaccia terroristica legata alla fede?
«Il mondo sta precipitando nel caos. E molta gente, specialmente giovane, è alla ricerca di principi forti e di leader determinati. Tutto ciò costituisce un perfetto terreno di crescita per il fondamentalismo. Sembra che il buon senso e la generosità cedano pian piano il passo alla violenza e all’intolleranza. E questo può rivelarsi pericoloso. Dobbiamo imparare a convivere con le situazioni di caos che il mondo ci presenta. È questo, credo, che cerco di dire nei miei romanzi».
E la società giapponese contemporanea? I tempi stanno di nuovo cambiando?
«Ce la siamo vista davvero brutta in questi ultimi dieci anni, dopo lo scoppio della “bolla” economica. Tuttavia, io penso che sia stata un’esperienza salutare per la nostra società. Abbiamo compreso che essere ricchi non significa essere felici. Siamo maturati. Il compito più importante che dobbiamo affrontare ora è la ricerca di una nuova identità. E in questo senso sono felice che lettori di altri Paesi siano interessati ai miei libri».
Lei è anche un eccellente traduttore di narrativa americana, Fitzgerald e Carver su tutti. Questi autori hanno influito sulla sua narrativa?
«Non saprei. Quel che posso dire è che dal lavoro di traduttore ho imparato moltissime cose. E che anche quando non ho nessuna voglia di scrivere, riesco invece a tradurre. Questa continua produttività è positiva, per me. Quando non voglio scrivere, traduco. Quando voglio scrivere, non traduco».
Il suo ultimo romanzo, Kafka on the shore, è monumentale quanto L’uccello che girava le viti del mondo. In entrambi vi sono simboli, sensazioni e visioni: ci può spiegare il loro significato?
«Non lo chieda a me. Io sono solo un umile scrittore. Non sono un critico, né uno studioso. La mia professione è scrivere storie. Analizzarle è il compito di qualcun altro. Giri a loro la domanda, la prego».
Qual è la trama di Kafka on the shore?
«È la storia di un ragazzo di 15 anni. Fugge dal padre cui è stato affidato e va alla ricerca di sua madre, di cui si sono perse le tracce da anni. E poi c’è un vecchio, che sa parlare la lingua dei gatti. È una lunga storia. Del tutto imprevedibile».
Tony Takitani, il film diretto da Jun Ichikawa e tratto dal suo romanzo omonimo, è stato presentato l’anno scorso a Locarno e quest’anno è stato invitato al Sundance Film Festival. Scrive anche pensando al cinema?
«Non mi interessa poi così tanto. Non ho ancora visto il film. Io mi limito a scrivere storie. Certe volte qualcuno vuole farne dei film. Certe volte sono d’accordo e certe volte no. Ecco tutto. Tutto quello che voglio scrivere lo metto nei libri. Farne un film non mi riguarda. Anche se certamente se dai miei libri fanno buoni film non può che farmi piacere».
L’amore ha sempre avuto un posto d’onore nei suoi romanzi. Mishima scrisse che basterebbe non amarsi, e i rapporti sarebbero infinitamente più semplici. Lei pensa che l’amore sia la cosa più importante?
«Non conosco romanzi in cui l’amore non abbia importanza. E in ogni caso, Dostoevskij scrisse che il mondo è un inferno quando non si ha nessuno da amare. È una verità assoluta».
In tutti i suoi libri i personaggi sembrano cercare una sorta di epifania. Ma sembra anche che questa non arrivi mai. Anche lei la cerca?
«Io ho sperimentato un’epifania, quando ho iniziato a scrivere, a 29 anni (secondo un aneddoto molto noto, nel 1978 Murakami era in gradinata al Jingu Stadium a un incontro di baseball tra gli Yakult Swallows e gli Hiroshima Carp: nell’attimo esatto in cui l’americano Dave Hilton ribatté, Murakami realizzò che poteva scrivere un romanzo. Tornò a casa e lo iniziò quella notte stessa, ndr). Sicché, ci credo. A ciascuno di noi può accadere qualcosa di determinante, in qualsiasi momento. Ma non tutti sanno vederla, o afferrarla. Credo che tutti i personaggi dei miei libri siano costantemente allerta per la presa. E so che alcuni di loro non ce l’hanno fatta, purtroppo».
In tutti i suoi libri, la musica, classica o jazz, ha un’importanza particolare. Anche nella sua vita?
«Semplicemente non potrei vivere senza musica».
Nel racconto Tutti i figli di Dio danzano, il protagonista Yoshiya ha una rivelazione sulla malattia, il dolore e Dio. Il dolore che sopportiamo ha un senso?
«È necessario passare attraverso il dolore per dare un senso alla nostra vita.

Questa è la regola base. I maratoneti lo sanno. No pain, no gain. Non c’è vittoria senza dolore. E se cerchi una vera rivelazione, devi passare attraverso l’agonia».
Qual è, oggi, la sua maggiore fonte di ispirazione?
«Il tofu».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica