Negli Usa il terziario con le vele spiegate attira capitali stranieri

L’economia americana sembra il Coyote dei cartoni animati. Corre nel Gran canyon verso il precipizio e continua a correre nel vuoto senza precipitare: crescita prevista del Pil al 3% nel primo trimestre e al 2,6% annuo nel 2007. Inflazione stabile al 2,1%. Produttività in calo all’1,6%, ma disoccupazione da 4,6% a 4,5%. Crollo degli ordini di aerei e mezzi di trasporto, ma previsione di investimenti in software e tecnologia in accelerazione al 4,5 per cento. E il deficit commerciale corre, anche a gennaio: aumenta il deficit petrolifero e quello con la Cina.
Nel 2006, il deficit è stato di 765,3 miliardi di dollari, ben oltre il 5,5% del prodotto interno lordo. La preoccupazione rende nervose le Borse di tutto il mondo perché si teme un collasso del mercato immobiliare statunitense.
Uno choc da prezzo del petrolio dovrebbe innescare un aggiustamento del tasso di cambio e moderare le importazioni. L’aumento dell’inflazione (dall’estero) riduce il potere di acquisto e mette in allarme la Banca centrale; che attua una stretta monetaria, che raffredda crescita e importazioni e così il deficit commerciale si riassorbe. L’aumento dei tassi di interesse frena la speculazione immobiliare e finanziaria. Alla fine disoccupazione su, inflazione giù e torna l’equilibrio. L’economia degli Stati Uniti, però, non sembra funzionare così. In America, energia e capitale sono fortemente complementari nell’industria: per utilizzare i macchinari, si deve usare anche l’energia senza grandi possibilità di sostituzione. Dunque, un rialzo del prezzo del petrolio aumenta i costi di produzione, proprio perché i macchinari consumano di più. Ne consegue un’immediata perdita di competitività del settore industriale americano, che ridurrà la produzione, deprimendo la domanda di investimenti.
Però, nelle decisioni dei consumatori americani, beni interni e beni prodotti all’estero sono largamente sostituibili: cioè quando aumenta, anche poco, il prezzo di un bene di origine interna, la domanda si rivolge con forza verso le importazioni. È una questione di convenienza, ma anche di diversa apertura culturale. Chi rinuncerebbe in Italia agli spaghetti di grano duro al dente, che consumano di più per bollire? Negli Usa, invece, è molto più flessibile l’importazione di stili di vita, di prodotti, di novità gastronomiche.
La spiegazione è che la domanda dei consumatori americani si rivolge massicciamente alle importazioni dalla Cina. Che hanno prezzi più bassi: si compensa così l’impatto dei costi energetici e, quindi, l’inflazione totale americana non aumenta. Senza allarme inflazione, la Federal reserve non stringe sui tassi d’interesse e allora non c’è contrazione della domanda aggregata e delle importazioni. Non c’è la stretta temuta dai mercati.
Intanto, galoppa lo sviluppo del terziario, che rappresenta i due terzi del pil: consuma poca energia e attira capitali esteri. Software, hi-tech, modello Wal-Mart sono la prova. Mentre le case invendute spaventano le Borse (i mercati finanziari possono sempre oscillare), gli americani continuano a comprare sempre più servizi sofisticati made in Usa e manufatti tradizionali cinesi.

Conclusione: l’economia degli Stati Uniti d’America continua a crescere più dell’Europa, l’inflazione non aumenta, le importazioni continuano a generare deficit commerciale, il dollaro tiene (... ma fino a quando?).
* Ordinario di Economia politica
all’università di Perugia

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