Nel programma di Prodi libertà di licenziare

Giuseppe Salvaggiulo

da Milano

Il programma. L’ossessione elettorale dell’Unione si materializza al Big Talk della Margherita. Nell’intervento di chiusura Romano Prodi rompe gli indugi e lancia la sfida. Soprattutto alla sua coalizione: «Faremo un programma radicale, non doroteo, perché non è tempo di aggiustamenti. Non possiamo permetterci più di accontentare, dobbiamo scontentare». E che cosa significhi fare riforme radicali, lo spiega lo stesso Prodi sottoscrivendo il programma dei cento giorni proposto sul Corriere della Sera dall’economista liberale Francesco Giavazzi: «Certo che rispondo sì alle sue domande, perché così l’Italia non può più andare avanti, è davvero nel declino maliziosamente descritto dall’Economist». E quindi: concorrenza tra le università, eliminazione degli albi professionali, immediata rimozione del governatore di Bankitalia Fazio, privatizzazioni, soppressione dei vincoli ai licenziamenti secondo il modello danese.
A proposito del mercato del lavoro, nel suo articolo di sabato Giavazzi aveva scritto: «La Danimarca ha eliminato qualunque ostacolo ai licenziamenti, soprattutto togliendo di mezzo i giudici e il diritto di chi è licenziato ad appellarsi a un tribunale. E così le imprese danesi, sapendo che sbagliare un’assunzione non è un dramma, assumono. (...) I sussidi di disoccupazione sono generosi e durano tre anni. Però si perdono immediatamente se l’Agenzia del lavoro trova un posto adeguato e il disoccupato lo rifiuta. Chi si impegna ad adottare il modello danese?». La risposta di Prodi è convinta. «Mi sembra di essere stato chiaro», dirà al termine del discorso.
Tutta la prima parte dell’intervento è dedicata al programma. Con uno sfogo iniziale: «Ci chiedono di presentarlo anni, mesi prima delle elezioni, cosa che non si è mai vista nella storia della politica. Non vedo perché dovremmo suicidarci. Ma abbiamo fatto una grandissima preparazione del programma, dai dibattiti della Fabbrica alle riunioni dei diversi partiti. Nessuno lo ha mai fatto prima. Certo che arriveremo alle elezioni con un programma compiuto, ma deve essere anche analitico». Prodi vuole affermare la sua leadership proprio sul programma: «Non bastano tre o quattro messaggi pubblicitari. Il punto fondamentale è che il programma non sarà edulcorato e generico. In questi lunghi mesi mi sono convinto di una cosa molto semplice: per salvare l’Italia dobbiamo costruire un programma radicale di riforme forti e profonde. Non possiamo permetterci più di accontentare: dobbiamo scontentare qualcuno a noi vicino, senza rincorrere tutte le richieste che ci arrivano. La gente non crede più alle promesse astratte».
Quindi la parola d’ordine è scontentare senza temere l’impopolarità. Per esempio le imprese, portando i contributi sui collaboratori al livello di quelli per i lavoratori dipendenti, «in modo da rendere sconveniente il lavoro precario». Per esempio i sindacati, rompendo il tabù sui licenziamenti: «Abbiamo messo garanzie ai livelli lavorativi alti e precarietà a quelli bassi. La stabilità si acquista con la progressione di carriera. Dobbiamo fare tutto il contrario: chi fa lavori standard ha diritto alla stabilità, gli altri no. Siamo disposti a scrostare questi privilegi per il progresso del Paese? Siamo disposti a dire ai nostri elettori che devono fare sacrifici?», chiede Prodi alla platea della Margherita. E ammonisce: «Il governo non sarà la composizione degli equilibri esistenti, ma una squadra volta all’attuazione del programma». Sul fronte istituzionale, in caso di vittoria il Professore vuole cancellare la riforma elettorale che la Casa delle libertà si appresta ad approvare «ripristinando immediatamente il Mattarellum». E dopo aver contestato la devoluzione, fa autocritica anche sulle riforme federaliste del centrosinistra: «Non è una vergogna rivedere le proprie convinzioni».
Il logorante dibattito interno all’Ulivo merita solo un accenno: «Non sono mai stato contro i partiti, quello democratico sarà un punto d’arrivo. Non bisogna precorrere i tempi, ma procedere nella direzione giusta con il passo del montanaro. Ora servono gruppi parlamentari unici. Dobbiamo investire sui marchi, sulla Quercia e sulla nostra Margherita, perché nella politica le quote di mercato sono ancora più importanti che in economia».

Non è tempo di polemiche, anche perché sembra fatto l’accordo sul finanziamento della campagna elettorale: i Ds pagheranno i due terzi, la Margherita il restante terzo.
Infine Prodi ribadisce solidarietà ad Arturo Parisi, ancora sull’Aventino: «Se uno pensa di tagliare la testa a lui, sappia che è difficile farlo senza tagliare la mia».
giuseppe.salvaggiulo@ilgiornale.it

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