Nella guerra di Melfi Marchionne divide i poteri forti

La linea del ceo Fiat piace ai filo governativi Scaroni e Geronzi. Ma non convince il "Corriere" e Passera

L’estate che volge al termine, ricca più che mai di temi politici e finanziari, trattati sui giornali e nei dibattiti, ci consegna una Fiat di nuovo al centro della scena. Con una novità: Sergio Marchionne divide i poteri forti. E non senza sorprese. L’ultima in ordine di tempo è quella del Corriere della Sera diretto da Ferruccio De Bortoli, quotidiano attento agli equilibri nelle cose della politica e della finanza anche per via del composito azionariato che lo controlla attraverso un patto di sindacato. Nel quale, ai primi posti, ci sono Mediobanca e la stessa Fiat; ma azioni «pesanti» sono in mano anche a Generali, Intesa, Pirelli, Ligresti, Pesenti, Della Valle.
Ebbene, è stato il Corriere dell’altro ieri, con un articolo del vicedirettore Massimo Mucchetti in prima pagina, a evidenziare «le due incognite di Marchionne». In cui si dice che il piano di Marchionne per Fiat (e per Chrysler, di cui Torino ha il 35%) rischia di rivelarsi rischioso per il futuro dell’intera industria nazionale. Infatti il successo della «Fabbrica Italia» è garantito a due condizioni, entrambe incerte: che il ciclo dell’economia riprenda e che il mercato assorba i modelli di Marchionne. Viceversa a prendere il sopravvento sarà la «Us Factory» della Chrysler, anche perché dietro agli americani ci sono sia il governo, sia i sindacati Usa, con un potenziale di capitale che la famiglia Agnelli non potrebbe pareggiare. Conclusione: sarebbe meglio che anche la Fiat pensasse a un «contraltare» nazionale agli americani. Insomma, un socio «di sistema» (pubblico o bancario-assicurativo) sarebbe l’unica strada percorribile per il nostro capitalismo. E si citano i casi Telecom e Alitalia come esempi di difesa collettiva del territorio nazionale.
Ora, a parte le perplessità sulla riuscita dei casi citati (il successo di Alitalia è di là da venire, mentre in Borsa Telecom vale da tempo un euro, il 60% in meno dell’ultimo passaggio proprietario del 2007), immaginare per Fiat un abbraccio di sistema, come fa il Corriere, equivale a evocare proprio quel tipo di relazioni da cui Marchionne si vuole allontanare con più determinazione. Basta ricordare due divorzi: quello da Mediobanca, una delle prime operazioni della sua gestione; e quello da Montezemolo - che rappresentava per Fiat il legame con la politica - una delle ultime. Coerente con questa impostazione è il braccio di ferro di queste ore con la Fiom sui tre licenziamenti di Melfi e sul futuro dello stabilimento di Pomigliano, diventato lo spartiacque per decidere se andare avanti con gli investimenti nella Fabbrica Italia o meno.
In questo senso Marchionne ha raccolto i consensi di una gran parte dell’establishment. C’è l’appoggio incondizionato della Confindustria di Emma Marcegaglia, sempre più distante da quella di Montezemolo; quello convintoi di Paolo Scaroni, ceo dell’Eni, che è anche tra le prime 5 oil company del pianeta. E con Marchionne si è idealmente schierato il presidente di Generali, Cesare Geronzi: non l’ha fatto pubblicamente, ma il suo recente intervento a Rimini si inseriva nella stessa cornice di cui sopra, a favore di un cambiamento rapido, di un’azione riformatrice, di un’inversione delle vecchie logiche ideologiche. Poteri forti in linea con la maggioranza di governo, a partire dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che ha fatto intendere chiaramente di appoggiare la campagna della Fiat. Ma il Corriere, invece, ha dato voce ad altri poteri.
Meno governativi (almeno in questa fase), più per la concertazione e per il sistema. Quel Corriere in cui Montezemolo ha appena dovuto lasciare a John Elkann le poltrone societarie, in seguito alla successione alla presidenza Fiat, senza però perdere qualche filo diretto (nel patto, nel cda della Rcs e della Rcs Quotidiani siede Diego Della Valle, imprenditore considerato molto vicino a Montezemolo). Di sicuro il modello di sistema è congeniale a Intesa Sanpaolo, driver bancario di tante operazioni industriali, a partire proprio da Alitalia e, in tandem con Mediobanca, da Telecom. Non a caso il suo ceo, Corrado Passera, proprio l’altro ieri ha sottolineato l’importanza che la produzione manifatturiera resti in Italia, rimarcando che non è il sindacato il primo problema del Paese.

D’altra parte fu proprio un consulente vicino a Intesa, l’allora presidente di Rcs, Guido Roberto Vitale, a studiare nel 2003 un piano che prevedeva l’ingresso del Tesoro nella Fiat, come primo socio al 25%. Correva l’anno 2003. Non se ne fece nulla. Poco dopo è arrivato Marchionne.

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