Ma il «nuovo alleato» Yemen è il regno della corruzione

Uno Stato a conduzione familiare, dove il governo controlla le grandi città e il resto è in mano alle tribù. Non solo: l’estrazione del petrolio, unica vera risorsa del Paese, ha raggiunto il suo apice e nei prossimi dieci anni comincerà ad affievolirsi. Il padre-padrone dello Yemen è Ali Abdullah Saleh, 67 anni, giunto al potere nel 1977 quando il Paese era ancora diviso dalla guerra civile fra Nord e Sud. Il giovane tenente colonnello ha giocato la carta della riunificazione restando in sella fino a oggi.
Il suo sistema di potere si basa sul nepotismo. Il figlio prediletto, Ahmed, è il comandante della Guardia repubblicana e delle unità d’elite. Ahmed è indicato come il delfino che dovrebbe succedere in stile monarchico al padre. Forze armate e servizi segreti sono guidati dai nipoti del presidente, figli del fratello più anziano. Amar è il vice direttore della Sicurezza nazionale, Yahye controlla le unità antiterrorismo e le Forze centrali. Tarek è il capo della guardia presidenziale, che garantisce l’incolumità del capo dello Stato. Mohammed Saleh Al-Hamar, fratellastro del presidente, è il comandante dell’arma aerea. Nonostante il controllo sulla sicurezza, negli ultimi tre anni sono scappati dalle galere yemenite 20 super terroristi. Compreso Nasser al-Wuhaishi, che comanda Al Qaida nella penisola arabica.
Tutti i parenti con le stellette sono coinvolti nelle principali compagnie del Paese. Il fratellastro dell’aviazione ha in mano la compagnia petrolifera Alhashidi. Il figlio prediletto controlla la società al-Haji, fornitrice di automobili in tutto lo Yemen. Il capo delle Forze di sicurezza centrali è in affari con i cinesi e nel petrolio. Lo stesso presidente Saleh controlla la società che vende gli idrocarburi del Paese. Non è un caso che poco meno di due anni fa abbia concluso la costruzione della grande moschea al Saleh, dedicata a se stesso: secondo l’opposizione è costata 120 milioni di dollari.
Per controllare il Paese e garantire la successione al figlio deve continuare a garantire le posizioni dei familiari e pagare prebende. Ma il petrolio scarseggia e non basteranno i 150 milioni di dollari promessi dagli americani per mantenere al potere Saleh. Il suo principale sponsor sta diventando la potente e vicina Arabia Saudita, che teme l’espansione di Al Qaida dalle basi yemenite del sud e dei ribelli sciiti dal nord. Lo scorso anno Riad ha versato 2 miliardi di dollari per salvare lo Yemen dalla bancarotta. Saleh ha però trascurato i clan tribali, vera ossatura del Paese. Gli al Hamar, la grande famiglia dal sangue blu, hanno fondato l’Islah, il principale partito di opposizione. Sheik Abdullah, capo della potente tribù Hashed, era presidente del Parlamento fino alla sua morte a fine 2007. Uno dei figli quarantenni, Hamid al Hamar, è il nuovo capo dell’Islah. Gli al Hamar sono stati tenuti buoni con partecipazioni nella Banca Saba, la principale del Paese, e affari nella telefonia mobile. Però in agosto il capo dell’opposizione si è presentato davanti agli schermi di Al Jazeera intimando a Saleh di non farsi succedere il figlio.
Non solo: la famiglia al potere deve guardarsi le spalle da un vecchio compagno d’armi del presidente. Si chiama Alì Mohsem, incaricato di schiacciare la ribellione sciita nel nord.

Non ha legami di parentela con Saleh e si oppone alla successione dinastica. È considerato il rivale più temibile per la presidenza, in grado di scardinare il sistema di potere dello Yemen a conduzione familiare.
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