Un paese unito dietro Olmert

Arturo Gismondi

C'è questa volta, dietro il governo di Israele, un Paese unito. Non è stato sempre così, e anche nelle crisi gravi hanno fatto spesso la loro apparizione voci di dissenso, come solo può succedere in un Paese così democratico. Dietro le dichiarazioni di Amos Oz, di Grossmann, di Yehoshoua e di altri intellettuali che intervengono questa volta a favore del loro governo c'è però, oggi, con la certezza di un momento che non concede spazio a debolezze, un senso di amarezza del quale credo di conoscere la natura. L'intellettualità israeliana, di sinistra e pacifista, nel passato si è spesa a fianco dei palestinesi, o di quella parte di essi che, a Gaza o in Cisgiordania, mostrava di apprezzare l'amicizia come segno di un comune destino.
L'angoscia di oggi si tinge di un sentimento più sottile, una sorta di rimorso per gli eventi della primavera e dell'estate scorsa quando Israele, e gli intellettuali al completo, si schierarono a favore dello sgombero della striscia di Gaza voluta da Sharon come atto unilaterale destinato a convincere i palestinesi che una pace fra due popoli destinati a vivere l'uno accanto all'altro era possibile. Furono mesi tremendi per lo stato ebraico, la resistenza dei coloni cacciati da Gaza ad opera dei soldati conobbe punte dolorosissime, e non ebbe la solidarietà della gran parte del popolo. Ero in Israele in quei mesi del 2005, ho assistito ai dibattiti, veri, appassionati, laceranti nei quali i coloni si sforzavano di convincere i loro compatrioti che i palestinesi non solo non sarebbero stati loro grati per la restituzione di Gaza ma al contrario avrebbero celebrato lo sgombero come una sconfitta di Israele, come una cacciata ad opera dei gruppi armati di Al Aksa, o di Hamas, o degli hezbollah infiltrati da Teheran fino in Palestina.
I coloni, insomma, si sforzavano di convincere i loro compatrioti che l'abbandono di Gaza, al quale sarebbe seguito quello della maggior parte degli insediamenti nei territori una volta giordani si sarebbe tramutato in un gesto destinato ad accrescere, incoraggiandola, l'aggressività palestinese. I testimoni di quel dramma, fra i quali chi scrive, finirono per convincersi che il governo di Sharon aveva ragione, che i coloni esprimevano i sentimenti e gli interessi più chiusi della società israeliana nei confronti dei popoli vicini. Forse era vero, la resistenza dei coloni era comunque sbagliata, le cose sono però andate in modo diverso, e oggi francamente non saprei dire. Sta di fatto che il primo gesto dei palestinesi dopo l'abbandono forzato dei coloni fu la distruzione delle piccole sinagoghe erette nei decenni precedenti, che i terroristi ne approfittarono per piazzare i loro avamposti a ridosso del confine, facendo cadere sulle cittadine ebraiche poste al di là e sui kibbutz i loro missili, rendendo insomma più difficile la vita ai loro vicini più prossimi e raggiungibili.
E oggi quella parte della popolazione di Israele più vicina alla sinistra, qualche volta ispirata da sentimenti pacifisti che inducevano a organizzare marce comuni contro il governo è indotta a riflettere su di un fatto doloroso: le aggressioni da parte di Hamas, l'uccisione e il sequestro di soldati e cittadini entro il territorio d'Israele al sud come al nord sono partiti da quei territori che Israele, in tempi diversi, lasciò volontariamente: il sud-Libano nei lontani anni '80, Gaza appena un anno fa.
Le cessioni vennero decise e attuate da Israele in nome di un principio, «pace contro territori» che intendeva testimoniare la sua volontà di vivere in pace con i propri vicini. E questa è stata da sempre l'ispirazione di Israele. Quando la nostra sinistra afferma che lo Stato ebraico raggiungerà la sicurezza una volta costituito lo Stato palestinese dice una cosa vera, ma che non ha riscontro nella storia della regione. Se i palestinesi non hanno costituito il loro Stato non è perché glielo abbiano impedito gli israeliani, è perché i loro capi, e tanta parte della classe dirigente dei Paesi arabi hanno preferito puntare sulla distruzione di Israele, piuttosto che sulla edificazione di uno stato palestinese.
Fu così nella primavera del 1948, quando l'Onu decise per la nascita di uno Stato ebraico e di uno Stato palestinese, la tragedia si ripeté fra gli anni '80 e '90 quando dopo gli accordi di Oslo Arafat, tornato in Medio Oriente, preferì scatenare la «seconda Intifada», la più estrema e feroce perché armata dei martiri-assassini mandati a morire sugli autobus e nei pub di Gerusalemme e di Tel Aviv.

E oggi, è la volta dei missili forniti da Teheran e scagliati dagli hezbollah, i guardiani di Dio a suo tempo subentrati come occupanti nei territori del Sud abbandonati anch'essi dagli israeliani. E dai quali si semina la morte sui villaggi dell'Alta Galilea, su Tiberiade, sulla città di Haifa.
a.gismondi@tin.it

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