«La parola di perdono che non volli pronunciare»

Cerca di nuovo la mia mano, ma io l’ho già ritirata da un po’. L’ho infilata fra le ginocchia, non può raggiungerla... Cerca la mia compassione. Ma ha diritto di compassione? Forse crede di trovar pietà quando si autocommisera... «Vede», aggiunge, «quegli ebrei sono morti subito, non hanno sofferto tanto come me. Certo non erano neppure colpevoli come me». Faccio il gesto di alzarmi e di lasciarlo: io, l’ultimo ebreo della sua vita. Ma mi trattiene, con la bianca mano esangue, Dove attinge la forza? così senza sangue? «Mi hanno trascinato da un ospedale all’altro \ tante volte ho desiderato morire. Così devo rimanere qui ad aspettare la morte. I dolori fisici mi straziano orribilmente. Ma ancora più mi strazia la mia coscienza. Mi richiamano ogni momento alla memoria la casa in fiamme e la famiglia che salta dalla finestra».
Tace, come cercando le parole. Penso che ora voglia qualcosa da me. Non posso pensare che abbia chiesto di vedermi solo per avere un ascoltatore. «Quando ero bambino credevo con tutto il cuore a Dio e alla leggi della chiesa. E tutto era molto più facile. Se potessi credere ancora con tanta forza, non mi sarebbe così difficile morire. Non posso morire senza essere in pace con me stesso. Questa dovrebbe essere la mia confessione. Ma come chiamarla confessione? Una lettera senza risposta... ».
Allude certo al mio silenzio. Ma cosa dovrei dirgli, io? Ho davanti un uomo che muore, un assassino che non vuole esserlo, reso assassino da un’ideologia spietata. Nelle sue parole c’è un sincero pentimento, anche se non lo dice espressamente. E non è neppure necessario; lo dimostra il modo in cui ne parla, e il fatto che ne parli a me.
«Mi creda, sarei pronto a soffrire ancora più atrocemente, se potessi cancellare dalla faccia della terra il delitto di Dnepropetrovsk... Ma io sono qui con la mia colpa. Nelle ultime ore della mia vita lei è vicino a me. Non so chi è lei, so solo che è un ebreo. E questo basta».
Non dico nulla... Vedo gli uomini saltare in fiamme dalla finestre, giù verso la morte. Anch’io avrei potuto essere fra quelli, e ottenere forse che il mio ricordo impedisse a una Ss di cercare riparo da una granata in arrivo. Il morente si solleva, congiunge le mani, come in preghiera. «Voglio morire in pace, e allora ho bisogno... ». Intuisco che qualcosa non riesce a venire alle sue labbra. Ma non sono qui per incoraggiarlo. Resto muto. «Lo so, quello che lo ho raccontato è orribile, nelle lunghe notti in cui aspettavo la morte, ero assillato dall’ansia di parlarne con un ebreo, di chiedergli il suo perdono... Lo so, quello che chiedo è forse troppo per lei. Ma senza una sua parola non posso morire in pace».
C’è un silenzio nella stanza, un silenzio inquieto. Guardo dalla finestra. La facciata di fronte è tutta inondata di sole. Dev’essere mezzogiorno, penso, il sole è alto. C’è in un letto un uomo che vuole morire in pace, ma non può, perché un orrendo delitto gli toglie la pace. E vicino a lui sta un uomo che deve morire, ma non vuole morire, perché vuol vedere la fine di delitti così orrendi.

Il destino ha riunito per qualche ora due uomini che non si erano mai conosciuti. Mi alzo, guardo verso quelle figura distesa, verso quelle mani giunte. Fra esse mi sembra di veder fiorire un girasole. Ho deciso. Senza una parola lascio la stanza.

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