Il fragore dell’affaire Mastella nei giorni scorsi ha indotto taluni osservatori a ipotizzare che le frange estremiste della magistratura non scegliessero più i loro bersagli politici con criteri di selezione ideologica, ma colpissero in tutte le direzioni, a destra e a sinistra, per affermare la loro volontà di supremazia nei confronti dei poteri (si fa per dire) esecutivo e legislativo. Ecco, s’è detto, se pm e gip un po’ particolari mettono in pre-crisi un governo delle sinistre già traballante di suo, vuol dire che certe toghe oltranziste non seguono logiche politiche ma di puro potere. Purtroppo la cronaca, sincera ancella della storia, s’incarica di smentire questa interpretazione: la magistratura politicizzata e iperattiva tiene fermo nel mirino il centrodestra, i liberali autentici, quello schieramento moderato che nella stagione repubblicana ha impedito che la democrazia italiana diventasse progressiva e progressista, cioè non democratica.
Le prove di questa affermazione le forniscono gli stessi magistrati giacobini che, con l’arroganza tipica di chi sa che non dovrà mai rendere conto di nulla, continuano a deporre contro se stessi con inchieste, ordinanze e verdetti.
Le anime belle della sinistra non lo ammetteranno mai, ma il bersaglio grosso dei magistrati oltranzisti - che intendono vendicarsi della storia inseguendo una bandiera rossa già ammainata – resta Silvio Berlusconi. È lui il leader da colpire, perché spariglia i giochi della politica politicante, perché dimostra che sotto il vestito unitario della coalizione di Romano Prodi non c’è niente. Quando il leader del centrodestra inizia un’azione politica per isolare la non-maggioranza di governo, scatta l’inchiesta di Napoli. Non si sa come i pubblici ministeri di quella città riescano a raggiungere i loro uffici facendo lo slalom fra i rifiuti ed evitando le slavine di munnezza. Ma loro non vedono lo scempio e la sofferenza dell’ex capitale, sono presi dall’ansia di impedire che il Cavaliere riesca a dimostrare l’inconsistenza della presunta maggioranza governativa. E allora ordinano spiate e intercettazioni e partoriscono un’accusa di corruzione, che sarebbe ridicola se non testimoniasse una tragedia della nostra democrazia. Un’altra accusa fantasiosa e avventurista che finirà nel nulla e che comunque oggi determina una ricaduta mediatica che appaga gli strateghi stolti dell’Unione. Gli italiani sanno interpretare le tortuosità della giustizia politica: non a caso il leader del centrodestra auspica che il suffragio popolare spazzi quest’anomalia dando a un nuovo governo la forza di varare un’autentica riforma della giustizia, nell’interesse dei cittadini.
Anche l’affaire Mastella presenta aspetti ridicoli e tragici insieme. C’è una procura, quella di Santa Maria Capua Vetere, che grazia un parente stretto del procuratore capo, anche quando le intercettazioni suggeriscono torbide contiguità con la camorra. Questo personaggio è il presidente della Provincia di Benevento, nipote del procuratore Maffei, il Torquemada dei Mastella, e sprofonda in uno scandalo legato allo stravolgimento del piano regolatore del comune di Casagiove. Ogni atto dell’indagine lo chiama in causa, ma non viene neanche iscritto nel registro degli indagati, viene sentito come «persona informata dei fatti». I nipotissimi contano pure qualcosa, come i «sargentissimi» nelle repubbliche delle banane. E questo nipotissimo si è prodotto nelle stesse manovre – come provano le intercettazioni – per piazzare amici e famigli nella sanità e altrove, ma nessuno gli ha contestato la concussione e l’associazione per delinquere. Queste accuse, autentici castelli di sabbia, toccano ai Mastella e ai loro amici di partito, chiamati ad ascoltare il tintinnio delle manette, risparmiate – l’ingiustizia sarebbe suonata troppo grave – alla signora Sandra. Un pasticciaccio, una vergogna. Ma una logica politica c’è. Il nipotissimo era dell’Udeur, ma poi era passato al Partito democratico, era passato coi buoni e con gli onesti per antonomasia. Alla luce di tutto questo l’azione contro i Mastella non può essere considerata un’iniziativa contro un esponente del governo, ma contro un leader che, anziché stare nella coalizione, era una spina nell’Unione, con le sue aperte minacce di distacco.
Tutto si tiene. Se gli esempi citati non sono ritenuti sufficienti, si valuti anche il caso di Salvatore Cuffaro, governatore della Sicilia. Con grande strepito mediatico era stato accusato di collusione mafiosa sulla base di prove e argomentazioni fumose. Il dibattimento non ha fatto emergere queste collusioni, l’accusa di mafiosità è caduta, eppure gli hanno inflitto cinque anni di reclusione per favoreggiamento semplice. I giuristi storcono il naso, ma che importa? Cuffaro la smetta di fare il moderato.
Poiché i pm giacobini non riposano, anche il governatore di centrodestra del Molise, Iorio, è finito sotto inchiesta per concussione e abuso di ufficio. Il governatore è di centrodestra e la caccia ai politici non migratori è sempre aperta.
Salvatore Scarpino
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