Pechino, asse con Pretoria per espandersi in tutta l’Africa

Banche, diamanti, platino sono i tasselli dell’asse strategico fra Pechino e Pretoria. Il Sudafrica è solo una delle teste di ponte cinesi per la «conquista» del continente nero. Il Sudafrica non ha il petrolio, ma esporta verso Pechino minerale di ferro, diamanti, platino e altro ben di Dio dal sottosuolo. I cinesi hanno comprato il 20% della Standard bank, un attrezzato istituto di credito sudafricano.
Non sempre fila tutto liscio. I prodotti manifatturieri cinesi hanno invaso il Sudafrica cancellando 60mila posti di lavoro nel settore tessile. I sindacati si sono ribellati e il governo ha dovuto imporre quote a una trentina di prodotti «made in China». Pechino ha subito annunciato prestiti agevolati per l’ammodernamento dell’apparato industriale sudafricano. E aperto la scorsa settimana a Johannesburg il primo ufficio del “Fondo dello sviluppo cinese per l’Africa”, specializzato in investimenti nel continente. I sindacati, però, avevano il dente avvelenato e lo scorso anno, con l’aiuto del vescovo di Durban, hanno messo in grande imbarazzo la Cina. I portuali si sono rifiutati di scaricare una nave carica di armi dirette nel vicino Zimbabwe. La commessa arrivava da una società dell’Armata di liberazione cinese guidata dal maggiore generale He Ping, genero dello storico leader Deng Xiaoping.
L’«asse strategico» fra Pretoria e Pechino è stato comunque ribadito nel 2008 in occasione del decennale dell’apertura di rapporti diplomatici fra i due paesi. L’espansionismo di Pechino nel continente nero è inarrestabile. Lo scorso febbraio, alla vigilia della quarta visita del presidente cinese Hu Jintao in Africa, è stato reso noto che l’interscambio nel 2008 ha superato i 100 miliardi di dollari. Le importazioni, soprattutto di petrolio e materie prime, pari a 56 miliardi, sono aumentate del 54% rispetto al 2007. Oltre al Sudafrica, il caposaldo cinese nell’area è lo Zimbabwe di Robert Mugabe, padre-padrone del Paese. I cinesi hanno costruito la sua lussuosa residenza con 25 stanze da letto e la sede del partito. Anche il nuovo palazzo presidenziale del presidente sudanese, Omar al Bashir, accusato di crimini di guerra in Darfur, è stato costruito grazie ai gentili prestiti a fondo perduto della Cina. In cambio Pechino importa circa due terzi del petrolio di Khartum.
Anche paesi non ostili agli Stati Uniti, come l’Etiopia, stanno diventando un tassello importante dell’espansionismo di Pechino in Africa. Una società cinese ha vinto la commessa di 17,6 milioni di dollari per ricostruire le strade della capitale Addis Abeba. Per la «conquista» dell’Africa sono arrivati 750mila immigrati con gli occhi a mandorla, che a Luanda, Dar es Salaam e Nairobi formano delle vere e proprie Chinatown. In Angola i cinesi hanno conquistato il 70% degli appalti statali. In Congo sfruttano le ricchezze del sottosuolo. Nello Zambia sono scoppiate le prime rivolte anticinesi. I lavoratori locali temono di perdere il posto o vengono trattati come bestie dai nuovi padroni.


Pechino ha anche deciso di investire 5 miliardi di dollari nel settore agricolo africano. L’obiettivo è produrre riso e cereali per la madrepatria, da utilizzare come riserva in caso di carestie.
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