Petrolio, gas e uranio Ecco il tesoro che fa gola al regime

Il «Tibet islamico» è tornato ad esplodere come un fiume carsico, che ogni tanto affiora dalle viscere della colonizzazione cinese. Lo Xinjiang è una vasta regione montuosa e desertica della Cina nord occidentale a tremila chilometri da Pechino. Da quelle parti passò Marco Polo lungo la via della Seta. Otto milioni di abitanti, il 45% della popolazione, sono uiguri, l’etnia originaria musulmana e turcofona. I cinesi del ceppo Han, grazie alla colonizzazione forzata, sono passati dal 6% al 40%. Inevitabile l’astio etnico fra la popolazione originaria ed i nuovi colonizzatori, che affonda nella storia di questo angolo di mondo poco conosciuto. Alla fine della guerra civile cinese fra nazionalisti e comunisti gli uiguri fondarono la Repubblica indipendente del Turkestan. Nel 1949 l’esercito di liberazione di Mao conquistò armi in pugno la regione ribatezzandola Xinjiang. Per i cinesi lo Xinjiang è il forziere del terzo millennio, ricco di risorse naturali (gas, petrolio ed uranio). Non solo: a Lop Nor sono state testate le armi nucleari cinesi. Il Tibet musulmano è esploso negli anni Novanta con insurrezioni di piazza, duramente represse, che causarono centinaia, forse migliaia di morti e 300mila internati nei campi di rieducazione. La rivolta aveva anche un suo braccio armato: le Tigri di Lop Nor composta dai veterani della guerra santa in Afghanistan contro l’invasione sovietica degli anni Ottanta. Gli uiguri sono discriminati nel mercato del lavoro a favore dei cinesi. I bingtuan sono enormi strutture produttive militarizzate, create soprattutto lungo il confine con l’Asia centrale, dove trovano lavoro e alloggio milioni di immigrati Han. Della lingua degli uiguri è vietato l’insegnamento e la loro cultura viene poco a poco erosa dalla penetrazione cinese. Il pugno di ferro di Pechino ha provocato una diaspora negli Stati Uniti ed in Europa, dove si sono formate organizzazioni di dissidenti soprattutto in Germania e Turchia. Le sirene talebane del vicino Afghanistan hanno attratto una minoranza di giovani dello Xinjiang alla ricerca dell’Islam duro e puro. In 17 vengono catturati e deportati a Guantanamo. Dopo la sconfitta dei talebani, Qari Mohammed Tahir Jan, fonda il Movimento islamico del Turkestan orientale raccogliendo le schegge fondamentaliste di tutta l’Asia centrale. Il gruppo armato, sulla lista nera dell’Onu, può contare su alcune centinaia di veterani della guerra santa internazionale con gli occhi a mandorla. I cinesi fanno di tutta l’erba un fascio e accusano di terrorismo sia le cellule che emulano Al Qaida, che i gruppi dissidenti trapiantati all’estero che si battono pacificamente per chiedere il rispetto dei diritti umani e la libertà. Un sanguinoso attentato ed un dirottamento sventato lo scorso anno, in occasione delle Olimpiadi, servono a demonizzare il separatismo islamico dello Xinjiang. Prima dei Giochi i cinesi arrestano migliaia di uiguri e scoppiano nuovi scontri. Gli americani, però, liberano un mese fa quattro uiguri detenuti a Guantanamo consegnandoli alle Bermude. Dove i «terroristi» scagionati sognano solo di aprire un ristorante. Per gli altri gli Usa cercano Paesi che li ospitino non considerandoli pericolosi. Pechino li vorrebbe indietro per condannarli a morte. Al disgraziato popolo degli uiguri manca un Dalai Lama, una figura carismatica, che porti avanti nel mondo la loro causa.

Rebiya Kadeer è la leader in esilio del Congresso mondiale degli uiguri proposta per il Nobel per la pace. Alla Cina chiede solo «libertà e non indipendenza. Ci battiamo per una vera autonomia come quella chiesta dal Dalai Lama per il Tibet».
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