La piccola impresa non va (tar)tassata

Silvio Berlusconi, nel suo incontro in Arabia Saudita, al capo del governo di Riad che gli illustrava le ricchezze petrolifere del paese, ha risposto: anche noi abbiamo il nostro petrolio, sono i 4 milioni di imprenditori italiani. Di questi, solo 50 mila hanno più di 5 milioni di fatturato. E 3 milioni hanno un fatturato che non supera i 180mila euro.
Un sistema frazionato, ma vitale, che trae forza dalla sua agglomerazione in distretti industriali, lavora per le grandi e medie imprese nelle attività decentrate e fornisce alle famiglie servizi artigianali preziosi, con mestieri che vanno assottigliandosi o nuove professioni, come le elettroniche e informatiche di cui c’è un grande bisogno. Moltissime imprese con meno di 180mila euro hanno solo due o tre addetti, che spesso fan parte della famiglia del principale. Moltiplicando 3 milioni per 2,5 addetti si arriva a 7,5 milioni di occupati e aggiungendovi il titolare dell’impresa si arriva a 10,5 milioni. Togliendo dai 24 milioni di occupati in Italia, i 4 nel settore pubblico, ne rimangono 20 milioni nel privato: più della metà sono nelle imprese con meno di 180 mila euro di fatturato.
Il petrolio dell’Arabia saudita non esce dai pozzi per magia. Comporta lavoro e investimenti... Anche il patrimonio di 3 milioni di piccole imprese non esiste per miracolo. E la crisi economica di cui questo esercito laborioso non ha colpa gli ha provocato ferite non irrilevanti. Il governo in Italia è stato, fortunatamente, più parco di aiuti a carico del contribuente che in altri Stati europei o di quel che si è fatto negli Usa. Comunque ha dato una mano non indifferente alle banche, che non sempre ringraziano, ha dato aiuti consistenti all’industria dell’auto e ha finanziato gli ammortizzatori sociali. I risultati, segnalati dall’Ocse sono postivi. L’Italia guida la ripresa europea, che per altro è una ripresina. I 3 milioni di imprese minori, in tutto ciò, hanno dovuto arrangiarsi da sé. E attualmente chiedono che qualcosa si faccia, per loro. Non grandi cifre e non sovvenzioni o privilegi. Riduzioni di imposte, con riguardo a tasse inique e illogiche, come l’Irap. Si accontentano di piccoli passi, di segnali di alleggerimento in relazione al dibattito sulla legge finanziaria alla Camera dei deputati.
Propongono l’aumento della franchigia, cioè della quota esente di imponibile, dell’Irap. Può costare 1,5 miliardi di euro se la si aumenta dall’attuale cifra di 9.500 euro a 30 mila euro. Ciò farebbe perdere all’erario 1,5 milioni sui 40 che l’Irap dà alle Regioni, dagli obbligati all’Irap 2 milioni di contribuenti. La metà di quelli che la pagano facendo perdere alle Regioni soltanto il 4 per cento del gettito. Se si aumentasse la franchigia da 10 a 15mila euro il fisco perderebbe 650 milioni ossia lo 1,6 per cento del gettito e sarebbero esonerati 700-800 mila contribuenti, un quinto del totale. La borsa di Tremonti è stretta e le minori entrate vanno coperte con minori spese, ma chiedo se davvero non sono reperibili 650 milioni di economia di spesa nel bilancio del 2010 per dare un primo segnale alla platea dei piccoli operatori economici che ci si occupa anche di loro, che sono una risorsa così importante della nostra economia e della nostra occupazione. Fra un po’ si dovrà tornare a discutere degli incentivi per l’auto, che sono giustificabili, ma sono, comunque, una mano tesa alla grande industria, che parla attraverso grandi giornali, manda a Davos e a Villa D'Este i suoi capi, a discutere dei problemi economici mondiali ed presente nei consigli di amministrazione delle grandi banche.
Ci sono tre milioni di piccoli operatori, che sono spettatori di tutto ciò, non sono rappresentati nei Forum economici internazionali. Non siedono nei consigli di amministrazione delle grandi banche, ma stanno dall’altra parte, allo sportello a gestire il conto corrente sorvegliando il proprio «massimo scoperto». Luigi Einaudi in un articolo su Il Mondo degli anni ’50 del Novecento narra che una volta a Dogliani venne un professore di agraria, per fare una inchiesta per conto del ministero, con interviste ai contadini.

Al termine, dopo tutti i quesiti che si fanno in questi casi, domandò ai cinque intervistati che cosa chiedessero al governo. Loro stettero un po’ in silenzio, guardandosi fra loro. Poi uno, a nome del gruppo rispose (in dialetto del luogo) «ci serve una strada migliore e meno imposte, al resto ci pensiamo noi».

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