Titolo nicciano per un giallo napoletano. Nietzsche però resta sulla copertina del romanzo di Pietro Treccagnoli: con quellespressione negativa, formula nichilista, definizione da Gaia Scienza - Non lo chiamano veleno (Avagliano, pagg. 124, euro 9) - che indica, scriveva il filosofo, «il veleno che uccide i deboli e tonifica i forti». Anche la pizza resta lì sulla prima pagina: ordinata da «Mimmo il pizzaiuolo», che «smanetta la pasta, spalma la salsa, aggiunge lolio», e abbandonata - se pur a malincuore: «Mimì, sarà per unaltra volta, vaco e pressa» - prima di passare al forno perché subito capita per le mani un affare molto più scottante. Perfino il giallo, come il formaggio sulla pizza cruda, si scioglie a metà dellopera. Si scopre presto chi ha ammazzato la Gabonese, la nera sparita dopo che «la polizia aveva fatto smammare le zoccole africane dalla Circumvallazione e dalla rotonda e San Francisco».
E allora? Dove sta il mistero di questo noir vesuviano che spolvera sentenze nicciane su Napoli come mozzarella su una margherita? La mozzarella sulla margherita ci sta benissimo. E molto più che sorprendere con le mani in pasta i soliti camorristi di seconda fila (presi a impastar sesso, droga, contrabbando e prostituzione), è sorprendente e, enfin, letteralmente esplosivo scoprire che il veleno di Nietzsche trova in Campania, tra la campagna napoletana e il mare, il più fertile terreno di coltura.
È solo che laggiù Non lo chiamano veleno. Da quelle parti, se va bene, si dice «monnezza, cibo per vermi». Dialettale, naturale. Anche oscenamente familiare se sente del «fieto che saliva dal cavone, quasi piacevole: sapeva di ritorno a casa, schifosamente intimo, privato». Quando passa il limite però, del libito e del licito, scappa fuori dal tappeto delle parole asettiche - «scorie», «discariche» - sotto cui si vorrebbe nasconderlo. E cola giù, sfuggendo allordine della lingua (e della legge), tra «chimica e putrefazione, schifezze innominabili». Fuori dai «bidoni con le ossa e le coccia di morte stampata sopra. Nero su giallo. Nomi impronunciabili. Sigle di lettere e numeri. Dalle quali si capiva una sola cosa: se li tocchi schiatti, tu e tutta a riscinnenza toia».
Da un terreno del genere solo una storia sporca si poteva tirar fuori. Storiaccia di genere, sordida e noir. Treccagnoli, giornalista del Mattino che ha avuto «la fortuna di nascere napoletano e di vivere da napoletano», debuttando nel romanzo la racconta in prima persona al plurale. Una polifonia di prime persone. Che varia sulle voci dei diversi personaggi un coro risuonante di pop di pulp e di trash. Ci cantano, senza stonare: il commissario Ascione, rozzo maschilista e «rattuso», e lispettrice Tropea, una mangiauomini vestita da Lara Croft. Il marucchino Rachid, «nu calamaro» e lafricano Fransuà, «watusso istruito», «niro infrancesato», «nu piezzo e guaglione» bello come Denzel Washington. Il gorilla Mellone, più che un killer, un «provolone», un «maccarone», tenuto al guinzaglio di duri da teleschermo: Belmondò, Belushi, un Luciano che si darà in «contranomme» di Lucky...
Ma a Quentin Tarantino, ai Blues Brothers e Alla ricerca dellarca perduta, Treccagnoli più che regalar citazioni fa il verso. In unarea di annosi depositi dove Federico II («lo sanno tutti quelli che sono andati a scuola») costruì il suo castello (o «masseria mezza sgarrupata»), «un Indiana Jones sai quante pernacchie o scoppettate sacchiappava». Rovesciato nel Golfo con la spazzatura, il cinema americano si trasforma in parodia. Le scene da poliziesco si mutano in scenette di genere, stracci di copione, canovacci di commedia dellarte. Le investigazioni di una mistery story si perdono nel pozzo senza fondo degli aneddoti, le dicerie, le leggende popolari, che a dirle troppo forte «i criaturi sappaùrano».
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