L'attimo fuggente, quello che può fregarti in ogni momento della vita. Può avere sembianze tragiche, sfortunate oppure ordinarie come un capannello di bagnanti a Ferragosto in una spiaggia del Salento. Come la foto virale dello scorso Ferragosto che colse il relax balneare del ministro degli Esteri Luigi Di Maio mentre i talebani entravano a Kabul mettendo in grave pericolo la rappresentanza italiana. L'immagine spensierata del dirigente grillino, abbronzato e in costume da bagno, in compagnia del governatore pugliese Emiliano e dell'ex ministro Boccia, era la tempesta perfetta per stroncare una carriera. C'erano tutti gli ingredienti per arrivare sull'orlo delle dimissioni: il contrasto tra il benessere personale e la tragedia degli afghani, le critiche ironiche di tutti i partiti, il rancore degli anti casta cresciuti proprio nell'incubatore pentastellato. Poi il copione è stato riscritto. E lo scivolone estivo è già uscito dall'immaginario collettivo, così volubile nella sua perenne indignazione da non ricordarsi neanche più per cosa. È un piccolo miracolo politico quello che ha riportato Di Maio nella stanza dei bottoni alla vigilia del Quirinale.
Sembrava finito ad agosto, dipinto come un gaffeur che storpiava i nomi dei leader stranieri, festeggiava la sconfitta della povertà sul balcone di Palazzo Chigi e arrossiva imbarazzato dinanzi alle disavventure imprenditoriali del padre. La sua resurrezione non è però frutto di un colpo di fortuna o della mutevole benevolenza dell'opinione pubblica. Dopo lo scivolone in spiaggia, Di Maio si è rinchiuso alla Farnesina e si è affidato a una rete protettiva di Palazzo che l'ha rimesso in piedi. I consigli dell'entourage del Quirinale, il sostegno della diplomazia, il raccordo con l'intelligence istituzionale. Insomma, l'ex leader M5s ha scoperto i vantaggi di fare il ministro degli Esteri, quindi ha scelto di inanellare una sfilza impressionante di missioni e incontri, culminati con un faccia a faccia a Parigi con il segretario di Stato Usa Blinken. Meglio stare alla larga dall'agenda politica interna, sempre poco redditizia per chi ricopre alti ruoli istituzionali.
C'è da scommettere che una parte dell'establishment abbia puntato le proprie carte su Di Maio, anziché Conte, in quella polveriera pentastellata che sta diventando un elemento di destabilizzazione. L'ex premier era celebrato a sinistra mentre il politico campano subìva ironie sui social tra i soliti rimandi al «bibitaro» dello stadio di Napoli o alla propensione a sistemare gli amici di Pomigliano d'Arco. Conte parla sempre molto, ma gestisce poco. Luigino si è sfilato dal dibattito quotidiano e invece controlla dall'esterno. Alcuni leader di maggioranza sono rimasti disorientati dinanzi alla debole presa dell'attuale leader M5s sulla recalcitrante pattuglia parlamentare. Per risolvere i problemi, citofonare Di Maio, meglio senza farlo sapere. Il ministro degli Esteri ha appena 35 anni e non ha più intenzione di fare altri passi indietro.
Ma deve ricordarsi che in democrazia i voti si contano e non si pesano, non bastano indiscrezioni o veline per accreditarlo di un patrimonio personale di 60 suffragi per il Quirinale. Sarà la grande rappresentazione del 24 gennaio a sancire se potrà riprogrammare il suo futuro o se ha ballato l'ultima estate.
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