Ci vuole la febbre antisraeliana che ha travolto Obama e il suo governo al tramonto, la volontà di lasciare un graffio sanguinante nel futuro dello Stato Ebraico, per risvegliare i sensi sopiti del segretario di Stato John Kerry, eccitato come non mai nel suo discorso di ieri sul conflitto israelo-palestinese. La sua passione può anche essere letta come una contraddizione, un desiderio di differenziarsi. Ma questo discorso altro non è, nei fatti, che la conferma del retaggio del suo presidente: dopo aver per la prima volta nella storia americana confermato, astendendosi, un voto dell'Onu che condanna Israele, ha lanciato Kerry come un missile contro l'unico stato democratico e laico del Medio Oriente.
La riunione indetta per il 15 gennaio a Parigi ha adesso altre migliori munizioni per aggredire di nuovo Israele. Kerry ha ripetuto più volte il suo intento: se le due parti non realizzeranno la soluzione «due stati per due popoli» Israele si troverà a dominare un altro popolo, abbandonando così la sua democrazia. Giusto: è un problema.
Ma Kerry, che nei particolari ha spiegato quanto gli insediamenti siano dannosi, ha messo da parte l'odio fanatico e il rifiuto del nemico che costringe Israele a garantirsi confini sicuri; non ha preso in considerazione il rifiuto ad ammettere uno Stato ebraico; condanna così di fatto la presenza israeliana a est della Linea Verde, compreso a Gerusalemme est, il Muro del Pianto e ogni altro indispensabile spazio come la zona dell'aereoporto da cui si può prendere di mira il prossimo velivolo.
I tempi scelti da Kerry per il suo discorso sono affannati, tardivi, connessi alla risoluzione dell'Onu: dopo quattro anni di politiche che hanno portato il Medio Oriente al caos, dalla Siria allo Yemen, dopo l'accordo tanto sudato con l'Iran, tutta la proposta di Kerry è che Israele deve smettere di costruire insediamenti per lasciare spazio a uno stato palestinese. Buona idea, ma come spiega Kerry che gli Usa non hanno mai trovato il tempo di spingere Abu Mazen a discutere con Netanyahu, che l'ha invitato mille volte, il futuro dei due possibili Stati? Per valorizzare il risultato della propria strategia diplomatica, quella per cui la delegittimazione di Israele è il primo passo verso la vittoria, Abu Mazen ha fatto seguito al discorso di Kerry con un'apertura che suona come un bluff: se Israele smetterà di costruire nei territori, l'Anp ottempererà a tutti gli accordi e si siederà al tavolo della pace. Una dichiarazione che esalta la scelta di intervento degli Usa.
Donald Trump ieri si è fatto vivo con un tweet esplicito: «Non possiamo continuare a lasciare che Israele sia trattata con tanto disprezzo e mancanza di rispetto. Un tempo gli Usa gli erano molto amici, ma non più. L'inizio della fine è stato il terribile accordo con l'Iran e ora questo Onu. Resisti Israele, il 20 di gennaio si avvicina rapidamente». Un tweet dettato, sembra, dalla preoccupazione che Israele si senta abbandonata dagli Usa.
Obama ha costruito in prima persona la trappola dell'Onu: un giornale egiziano ha rivelato gli incontri (semi negati dagli americani) di Kerry e di Samantha Rice con i palestinesi settimane prima della risoluzione. La tela di ragno si è estesa ovunque: gli inglesi hanno aiutato a scrivere la risoluzione. E Obama stesso avrebbe telefonato al presidente ucraino per chiedere di non astenersi: gli ucraini lo avrebbero fatti volentieri perché Israele li aveva sostenuti con il voto che condannava l'aggressione russa in Crimea.
E anche il tentativo di Putin di rallentare il percorso della risoluzione è stato fermato con la subdola forza della diplomazia, che nasconde le peggiori inimicizie. Come quella, profonda e radicata dell'antipatia per Israele del presidente di un Paese che è sempre stato, prima di lui, il migliore amico di Israele in nome di valori comuni che il tempo ha consumato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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