Ben più avvezzo alle cose della politica di quanto molti avessero immaginato, Mario Draghi si presenta al vertice Stato-Regioni con l'approccio inclusivo di chi sa bene quanto sia scivoloso il dibattito su riaperture e chiusure. Non solo perché Matteo Salvini sta cavalcando il tema senza esitazioni, al punto dall'aver dato mandato ai suoi di «battere sulla questione» a ogni occasione. Concetto, questo, ribadito ieri in una videoconferenza con i governatori della Lega, che di lì a poco avrebbero partecipato alla riunione con il premier. Ma anche spiegato - per usare un eufemismo - a Giancarlo Giorgetti la scorsa settimana, in un faccia a faccia che i due hanno avuto al Ministero dello Sviluppo economico. Non proprio un incontro pacifico se, raccontano i dipendenti del Mise, le urla si sono sentite a decine di metri dalla porta del ministro. A rendere la questione politicamente sensibile, però, c'è soprattutto il fatto che - giusto o sbagliato che sia - Salvini rappresenta la percezione diffusa di un pezzo del Paese, soprattutto del Nord. Non solo i ristoratori o i commercianti che nel week end hanno protestato contro le chiusure in diverse città, ma anche i tanti, certamente troppi, che nel fine settimana hanno riempito le vie dello shopping di grandi e piccoli centri come se i negozi fossero aperti.
È anche per questo che Draghi sceglie di non aprire fronti, pur essendo assolutamente convinto che la valutazione su un eventuale allentamento dopo Pasqua non possa che dipendere dai numeri. Un criterio oggettivo, che nulla ha a che fare con la politica. Il resto è un auspicio. Come quello di «guardare al futuro con ottimismo», perché «gli obiettivi prefissati per aprile e maggio» di «arrivare a 500mila vaccini al giorno» oggi «non sembrano più così lontani». Insomma, «occorre ridare speranza al Paese, pensando a programmare e alle riaperture». Questa dice il premier via Zoom nella sua relazione introduttiva davanti ai governatori. Poche parole. Poi ascolta gli interventi di Stefano Bonaccini (presidente della Conferenza delle Regioni e governatore dell'Emilia Romagna) e Giovanni Toti (presidente della Liguria) e, dopo circa venti minuti, lascia la riunione. Lo fa perché occupato in altri impegni istituzionali, ma non passa inosservato il fatto che il premier decida di sfilarsi prima che la parola passi ai governatori leghisti (il lombardo Attilio Fontana, il veneto Luca Zaia e il friulano Massimiliano Fedriga). Evita, insomma, lo sfogatoio. Nessuna rottura, né toni duri, certo. Però la linea impressa da Salvini nella videoconferenza di qualche ora prima emerge chiaramente. La Lega chiede di rimettere mano ai colori delle regioni dopo Pasqua, al massimo alla metà di aprile. «Noi siamo contrari a chiusure inesorabili», ribadisce il leader del Carroccio. Una linea che è esattamente l'opposto di quella di Roberto Speranza. Il ministro della Sanità veste ancora una volta i panni del rigorista e ribadisce che, stando i numeri attuali, è difficile immaginare un allentamento da lunedì 19 aprile. Forse a maggio, anche grazie ai tre milioni di dosi di vaccino Johnson & Johnson che dovrebbero arrivare in Italia dal 16 aprile.
Prova a trovare un punto di mediazione Mariastella Gelmini. Il ministro per gli Affari regionali, infatti, propone di individuare un «automatismo per prevedere aperture mirate» se i numeri dovessero migliorare dopo il 15-20 aprile. Un'idea che non pare convincere Speranza che, almeno al momento, non vede margini per interventi in questo senso sul testo del prossimo decreto.
Ma quello della Gelmini è un «ragionamento politico», il tentativo - ovviamente se i numeri dei contagi lo consentiranno - di trovare un punto d'incontro tra i rigoristi alla Speranza e gli aperturisti alla Salvini. Con Draghi che sarebbe «ben contento» di poter dare il via alle riaperture, ma che continuerà a muoversi solo in base ai numeri effettivi dei contagi.
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