La Cina cambia e può trascinare l'Occidente

È finita un'era e l'Europa è chiamata ad adattarvisi con sano realismo. Pechino non fa più paura ed è un potenziale partner

La Cina cambia e può trascinare l'Occidente

Che la Cina potesse – svalutando la propria moneta (lo yuan) come un qualsiasi Paese capitalista - provocare un terremoto in tutte le Borse del mondo era un fatto impensabile solo pochi anni fa e solo per chi non avesse assistito, osservandola da vicino, alla sua capacità di cambiare. Ho avuto la fortuna di essere a Pechino quando la Cina stava rapidamente uscendo dal dogmatismo degli ultimi anni di maoismo, stava entrando e infine sarebbe entrata nella Modernità occidentale. Ci ero arrivato da Mosca - dove la Russia era sempre uguale a se stessa da decine d'anni e non mostrava affatto di voler cambiare - e, osservando il pragmatismo dei cinesi, mi ero convinto che la Cina prima o poi avrebbe conquistato anche la nostra parte di mondo come, in effetti, già sta accadendo.

Il cinese – lo prova quando emigra all'estero - ha una cultura di servizio che gli viene dalle migliaia d'anni della sua storia nel corso della quale è stato costretto dalle circostanze ad adattarsi costantemente a nuove situazioni. Una volta emigrati da noi, i cinesi hanno aperto ristoranti e lavanderie che hanno migliorato non solo la loro, ma anche la nostra vita. A differenza dei russi, essi non hanno una mentalità imperialista, di conquista politica e militare, bensì di influenza culturale e commerciale; non pretendono di imporre i propri modi di vita e i propri costumi con la forza, ma si adattano a quelli dei Paesi con i quali vengono a contatto. La prova di tale mentalità sta tutta nel modo col quale si comportano da noi.

Ricordo che, a Pechino, avevo visto i funzionari dell'ambasciata sovietica andare al muro dove i cinesi appendevano i loro manifesti che annunciavano e sui quali discutevano i cambiamenti in corso. Per i russi, come del resto per me, un popolo annunciava e discuteva pubblicamente una sorta di rivoluzione pacifica che sarebbe, poi, stata confermata dall'esperienza; una rivoluzione che non aveva soprattutto nulla di dogmatico ma, se mai, confermava una forma mentale che si sovrapponeva automaticamente a quella fino a quel momento imperante con la duttilità di chi ha l'abitudine di sperimentare: ciò che da noi chiamiamo try and error , «prova e sbaglia» se vuoi cambiare, senza preoccuparti troppo delle conseguenze, bensì facendo tesoro degli stessi errori. Quest'ultima notizia - quella della svalutazione dello yuan e delle sue conseguenze finanziarie – ne è la riprova.

Dunque, la Cina è vicina, come si diceva solo qualche anno fa assistendo esterrefatti alla sua rapida trasformazione. E con essa dovremo fare i conti. Si è già comprata un bel pezzo d'Africa, dove ha trasferito i propri metodi agricoli e farà altrettanto in Occidente, comprando fabbriche e sistemi produttivi. Non è il «pericolo giallo» del quale parlava, a sproposito, il fascismo, bensì è un potenziale partner, che ha risorse finanziarie – l'enorme risparmio accumulato dalla sua popolazione e gestito dalla politica a fini imprenditoriali e commerciali – e col quale non sarà difficile intendersi. Gli Stati Uniti – che hanno la leadersihp mondiale – hanno già dato prova di intendersi meglio con la Cina che con la Russia, anche quella delle distensione, del dialogo e della concorrenza. Sempre a Pechino ho constatato che gli americani capiscono, e apprezzano, la mentalità cinese più di quanto, a Mosca, capissero e apprezzassero quella russa. L'empirismo anglosassone si sposa naturalmente col pragmatismo cinese, senza contare che gli interessi degli Usa sono storicamente più orientati al Pacifico che all'Atlantico.

È finita un'era e ne sta

incominciando un'altra. E l'Europa è chiamata ad adattarvisi con sano realismo empirico, come aveva fatto ai tempi della Guerra fredda verso l'Unione Sovietica, sulla scia del suo maggiore alleato.

piero.ostellino@ilgiornale.it

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