Mai come oggi l'Europa è chiamata a serrare le file. Basta alibi sull'eurodebito e sulla difesa dei confini

Il Rapporto Draghi sulla rifondazione dell'Unione diventa di grande attualità. Ne va della tenuta dell'eurozona

Mai come oggi l'Europa è chiamata a serrare le file. Basta alibi sull'eurodebito e sulla difesa dei confini
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Il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump impone all'Europa di riscrivere la propria storia più recente. Per dirla con Gino Paoli, «è questione di sopravvivenza». Restare abbarbicati al modello imperante nato con la stesura del Trattato di Maastricht rischia infatti di condannare il Vecchio Continente alla marginalità su scala globale. A cominciare da quella economica. Occorre ragionare sulla base di altri schemi fondati sull'evidenza che il mondo è cambiato, è molto più fragile sotto il profilo geo-politico e non si cura di chi persegue miopi obiettivi di contabilità a scapito della crescita.

Eppure, come dimostra la recente riscrittura del Patto di stabilità, l'Europa resta dominata dall'ossessione pressoché patologica di voler ricondurre debito e deficit all'interno di parametri (i famigerati 60% e 3% del Pil) peraltro mai presi come benchmark dai manuali di macroeconomia. Se qui si persevera in un lavoro di sottrazione, altrove si ragiona in termini espansivi. Il programma elettorale di Trump è infatti un condensato di misure destinate a gonfiare nel prossimo decennio di quasi 8mila miliardi di dollari il debito federale Usa, già sopra quota 35mila miliardi. Così fan tutti, del resto: i mercati emergenti (con particolare riferimento a Cina, India e Messico) sono gravati da 105mila miliardi di debito, il 257% del loro Pil; il Giappone è al 286%, un livello monstre mitigato dal fatto che l'80% dei bond del Tesoro è in mano a famiglie e imprese locali, nonché grazie a una politica monetaria ancorata alle esigenze della finanza pubblica.

Sotto questo profilo, l'Europa è andata nella direzione contraria nel momento in cui ha assegnato alla Bce il ruolo di cane da guardia della stabilità dei prezzi. Come la Federal Reserve, Francoforte avrebbe invece dovuto essere dotata di una doppia funzione (di stimolo per una piena occupazione, oppure di contrasto al carovita), da esercitare a seconda della congiuntura. È anche a causa del modo in cui fin dall'inizio è stata calibrata la politica monetaria (fatta salva la parentesi di Mario Draghi alla guida dell'Eurotower) se l'Europa sta oggi sul ring della competizione internazionale come un pugile con le mani legate dietro la schiena. Una palese inferiorità destinata ad aggravarsi con il futuro allargamento dei Brics, il cui format attuale esprime già il 37% della ricchezza mondiale.

Il Vecchio Continente dovrebbe quindi darsi una sveglia. Anche perché non passerà molto tempo prima che Trump presenti il conto ai Paesi dell'Ue: sia sotto forma di dazi (un déjà vu, dopo quelli introdotti su acciaio e alluminio durante i suoi primi quattro anni alla Casa Bianca) sia con la richiesta di un maggiore esborso (fino al 4% del Pil) per poter restare nel club della Nato.

Ma non sono solo i prossimi aut-aut di The Donald a rendere indifferibile il reperimento di fondi: l'Europa deve affrontare il processo di de-carbonizzazione (costo calcolato dalla Commissione Ue, 650 miliardi di euro l'anno fino al 2030); confrontarsi con una de-globalizzazione che ha aperto crepe nel modello economico della Germania; partecipare alla sfida sugli sviluppi dell'intelligenza artificiale, pur gareggiando con l'handicap degli investimenti in ricerca e sviluppo europei pari a un quinto di quelli statunitensi e alla metà di quelli della Cina.

Già domani, in occasione del vertice informale di Budapest, si potrà capire che aria tira fra i vari partner europei: all'ordine del giorno figurano proprio il nodo della competitività e la discussione sul Rapporto Draghi. L'ex premier ha indicato la strada: è urgente trovare 800 miliardi l'anno attingendo dai capitali di famiglie, imprese e investitori istituzionali grazie a un mercato finanziario più dinamico ed efficiente. Poi, andrebbe attivato il secondo canale di finanziamento col varo di un Next Generation Ue 2.0. Ovvero, l'emissione di debito in comune da legare a progetti mirati (risorse da destinare alla difesa, oppure al Green) prevedendo magari il differimento dal 2028 fino al 58 dei debiti contratti con l'adesione al Recovery Fund. Insomma: Eurobond per incamerare risorse fresche pagando bassi tassi d'interesse agli investitori globali, attratti dalla tripla A delle emissioni e dalla possibilità di rafforzare le riserve in euro. Il Vecchio Continente avrebbe inquesto modo un nuovo Dna. Andrà così? Il percorso è pieno di ostacoli.

Uno su tutti: l'ostinazione ordoliberista con cui il ministro tedesco delle Finanze, Christian Lindner, continua a pretendere austerità malgrado la Germania sia alle corde. In conclusione, per passare dal MAGA trumpiano al MEGA, cioè al Make Europe Great Again, serve ben altro che la sostituzione di una vocale.

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