Col progetto di istituire una tassa sulle eredità, Renzi si appresta a infliggere un colpo mortale al ceto medio, che è poi la classe sociale - più comunemente chiamata borghesia - di riferimento di ogni democrazia liberale. La cultura politica di Renzi è quella del compromesso storico: una sorta di autoritarismo sociale e politico, analogo al fascismo, nato nel Secondo dopoguerra e da una Costituzione pasticciata, al tempo stesso ereditata dal dirigismo fascista sconfitto dalla guerra e da quello comunista.
È sotto questo profilo che l'ex sindaco di Firenze si connota come scarsamente democratico e incline, invece, a manifestazioni di autoritarismo personale, mascherate da decisionismo, che male si conciliano con la democrazia liberale. La propensione di Renzi a decidere prescindendo volentieri dalle procedure parlamentari - si veda l'abolizione del Senato, perché il bicameralismo «faceva perdere tempo» - si fa beffe anche della democrazia fattuale, con una sbandierata indifferenza per le minoranze, compresa quella all'interno del suo stesso partito.
Intendiamoci. Non siamo alla vigilia di una dittatura (anche se certi sintomi sono manifesti), perché l'Italia è inserita in un contesto internazionale e opera in un momento storico che non lo consentirebbero. Restiamo una democrazia di tipo occidentale, con i suoi pregi e i suoi difetti, malgrado i difetti incomincino a sopravanzare i pregi. E qui mi riferisco alla funzione dei media. Capisco l'esigenza di cambiare pagina, dopo anni di governi che hanno mal governato. Ma tale esigenza, e la premura che essa sollecita, non dovrebbero andare a scapito della correttezza democratica. La democrazia si concreta in procedure e in abiti mentali che la distinguono nettamente dai regimi autoritari e/o totalitari. Tutto sta nel fare in modo che tale distinzione permanga e non sia ridotta da comportamenti sconsiderati. Il buon Renzi, anche se ne sarebbe tentato per scarsa cultura politica e propensione personale, cerca di restare negli ambiti della democrazia liberale persino quando si abbandona a qualche deviazione per ragioni che lui stesso ritiene di forza maggiore. Compito di un sistema informativo corretto, nel significato attribuitogli da Tocqueville, dovrebbe essere quello di rilevare tali comportamenti, di denunciarli e criticarli. Il fatto che non lo faccia non significa che li approvi, ma semplicemente che non assolve del tutto la propria funzione che - nella definizione che ne dà Tocqueville - era già fondamentale nell'Ottocento per il buon funzionamento della democrazia in America.
Personalmente, a costo di apparire a volte troppo severo col capo del governo, io mi attengo al principio. Auspico anch'io le riforme, ma (solo) nel senso che favoriscano la piena funzionalità della democrazia e lo sviluppo economico del Paese senza concessioni burocratiche e/o corporative. L'accenno alle corporazioni non è casuale. Credo, infatti, che una certa sordità del sistema informativo derivi dalla convinzione di alcuni giornalisti che il proprio editore si aspetti da loro tale comportamento. Non ho mai pensato, né lo penso ora, che i media siano troppo accondiscendenti nei confronti del governo perché così vogliono, e impongono, i loro editori. Penso, piuttosto, che così siano fatti perché troppi giornalisti pensano di dover rendere omaggio a presunte esigenze dei loro editori.
Faccio questo mestiere da oltre cinquant'anni; ho fatto persino il direttore, un incarico esposto ai capricci degli editori, ma mai nessuno - neppure l'editore che, per sua natura, poteva essere il più sensibile nei confronti del potere politico, dal quale qualche favore pur si aspettava - ha cercato di impormi una linea editoriale diversa dalla mia, che era in sintonia con la definizione di Tocqueville. Sono, addirittura, grato ai miei editori per non averlo mai neppure tentato. Se, a volte, ho sbagliato, la responsabilità è tutta e solo mia, di certo non dei miei editori e i miei direttori, che mi hanno consentito la massima libertà. Mi sono attenuto, come accade per parte loro, a un'idea di giornalismo democratico-liberale dalla quale non demordo, neppure quando, e se, certi miei lettori, simpatetici per Renzi, mi rimproverano una qualche severità di troppo nei suoi confronti e una vocazione al pessimismo circa il futuro del mio Paese. Credo, anzi, che il mio spirito critico e il mio pessimismo siano proprio la manifestazione dell'amore che nutro per il mio Paese natale che vorrei migliore, pur senza eccedere in massimalismi di alcun genere.
Sono un liberal-conservatore, nell'accezione di Edmund Burke o di Benjamin Constant e, perché no, di Alexis de Tocqueville verso gli eccessi della Rivoluzione francese e/o le eventuali degenerazioni dell'egualitarismo democratico. Che, di fronte alla legge, è il modo corretto dello Stato moderno di connotarsi, e porsi, rispetto ai cittadini, ma senza che il principio di cittadinanza sia il solo criterio per il riconoscimento dei diritti civili. Nella celebre distinzione di Benjamin Constant - fra la libertà degli antichi rispetto a quella dei moderni - sono per la libertà dei moderni, quella di ciascuno di farsi (anche) i fatti propri senza doverne rispondere se non alla propria coscienza e non allo Stato. I diritti civili sono i diritti naturali di ogni uomo, sia esso cittadino o no di un qualche Stato, anche di quello più democratico.
Compito dello Stato è tutelarli e difenderne la manifestazione in ogni circostanza, nel rispetto delle leggi, con una chiara distinzione: che il diritto positivo, cioè quello statuale, non li stravolga e li mortifichi, ma ne esprima il senso.piero.ostellino@ilgiornale.it
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