Quei «moderati» senza limiti né compromessi

Gustavo Selva

«Islam moderato»: sembra essere questa la «parola d’ordine» di un mondo politico che, dovendo difendersi da un «Islam fondamentalista e terrorista», cerca un interlocutore con il quale, almeno, riuscire a parlare. Per ora, le convinzioni correnti nel regno dei «politicamente corretti» sono queste: definire «tutti i musulmani» terroristi è sbagliato; affermare che si tratta di una guerra tra civiltà divide gli occidentali e non porta a soluzioni; chiamare ciò che accade una guerra di religione deve essere evitato e dichiarato falso. Forti di queste convinzioni, conoscendo poco la storia dell’Islam, senza parlare arabo e comprendere il Corano, il mondo politico italiano si aggrappa ad una «sperata» divisione tra «fondamentalisti» e «moderati».
È bene a questo punto sapere che anche il più moderato dei musulmani crede che Allah sia «l’unica forza che muove l’universo e che questa concezione non conosca né limiti né compromessi» e traduce questo assunto in politica pensando che colui che rifiuta il messaggio di Maometto sia «miserabile e pazzo». Nel musulmano esiste un «senso di superiorità» che lo spinge a conquistare il mondo. L’identificazione del nemico è facile: esistono solo due patrie, quella dei maomettani e quella dei miscredenti. La Casa dell’Islam è quella degli uomini dotati di ragione; l’altra è il manicomio in cui vivono coloro che Allah vuol trarre in rovina. È all’interno di queste convinzioni che si deve andare a scavare per trovare non «moderati e fondamentalisti» ma «quelli che uccidono» e quelli «che non adottano questo sistema». Conoscendone e cercando di capirne lo spirito, perché per un musulmano un altro musulmano che si fa esplodere uccidendo «pazzi infedeli» non è un assassino ma un «martire».
Gli articoli dei maomettani che si schierano con coraggio contro il terrorismo parlano poco di «mano tesa verso gli islamici più moderati» e anzi, invitano le autorità dei vari Paesi ad «esigere» dai capi una serie di responsi ufficiali islamici (o fatwa) per dichiarare che l’Islam non giustifica assassinii di innocenti e per far valere le leggi sulla sicurezza vigenti nello Stato. Essi esigono indagini perché non si faccia delle moschee dei luoghi di preparazione di attentati o anche di discorsi in cui si costruisce l’odio. Esortazioni che essi stessi, però, reputano poco credibili, visto che, come ammette l’analista arabo del Medio Oriente del Centro di Studi Strategici degli Stati Uniti, Mamoun Fandy, i moderati «in pubblico dichiarano che il terrorismo è la risposta a ciò che succede in Palestina o in Irak e in privato manifestano verso l’Occidente un odio cieco, guidato da un’assurda urgenza di distruzione».
L’Occidente si ferma alla prima parte della frase, e, in mancanza di conoscenze dirette e costretto a fidarsi di quello che trova, è solito far parlare questi filo-terroristi definendoli «specialisti di cose arabe». Alla luce di questa situazione, ben chiarita in Italia da Magdi Allam, la dichiarazione di Pisanu di voler aprire un canale con una nascente Consulta per l’Islam italiano si fonderebbe su una speranza molto mal riposta.
Nel 1937 Essad Bey, nel suo «Islam, ieri, oggi e domani» si avventurava in un pronostico: «Qualunque potenza orientale è destinata alla sconfitta, a patto però che l’Europa (e gli Stati Uniti, diciamo adesso) sia pronta a combattere servendosi di tutta la sua superiorità tecnica e di tutte le sue forze».

Quando scriveva così, Essad Bey non sapeva della guerra economica per il petrolio, delle migrazioni, dell’uso dei kamikaze per terrorizzare gli occidentali, ma soprattutto della differenza degli indici di natalità tra occidentali e orientali, cioè dei numeri della popolazione del mondo: lui, nel 1937, parlava di 400 milioni di musulmani; oggi sono un miliardo e mezzo, e il loro «impero» non è mai stato tanto vasto.

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