So bene che le discussioni sui sistemi elettorali annoiano profondamente. Ma poi accade che quando l'elettore si trova di fronte a una trentina di simboli tra cui scegliere, non può votare il suo candidato perché la lista è prefabbricata, e si rende conto che i suoi soldi vanno a rimpinguare le casse dei partiti, allora si arrabbia, e molto. Tutti questi inconvenienti sono conseguenza dei sistemi elettorali, ed oggi sono l'effetto della legge elettorale vigente, non a caso definita «una porcata» dagli stessi autori. È per ciò che è opportuno ragionare sul referendum elettorale che è stato depositato in Cassazione da un folto gruppo di esponenti politici d'ogni colore capitanati dall'antico e genuino referendario Mario Segni. Valutare l'iniziativa non è tuttavia semplice perché essa contiene elementi sia positivi che negativi. Chi scrive è, per così dire, un «antemarcia» perché ha partecipato in prima fila alla promozione dei referendum elettorali degli anni Novanta, quando è entrata in crisi la cosiddetta «prima Repubblica» con la delegittimazione dei partiti.
Allora il referendum elettorale del 1993, molto più di quello sulla preferenza unica del 1991, ebbe una portata politico-istituzionale rivoluzionaria per il fatto di essere decisionale e non pungolativo, come molti ripetono oggi. Per la prima volta nella storia della Repubblica fu cambiato il sistema elettorale, passando dal proporzionalismo diffuso a tutti i livelli al maggioritario basato sui collegi uninominali. Il referendum che trasformò radicalmente il sistema del Senato (dopo il quale fu fatta la legge per Camera e Senato per tre quarti uninominale e un quarto proporzionale) ebbe il merito di colpire dall'esterno il sistema cristallizzato dei partiti per cui il Parlamento, se pure di malavoglia, dovette recepirli.
Perché il referendum d'oggi ha aspetti controversi? Cominciamo dai negativi. Leggo che si vorrebbe usare l'arma referendaria, con il quesito che dà il premio di maggioranza al partito e non alla coalizione dei partiti, come pungolo per la formazione dei partiti unici, Partito democratico a sinistra e Partito delle libertà a destra. Si tratta, a me pare, di una velleità che non corrisponde ad alcuna realtà politica in divenire. I partiti, soprattutto se unitari di schieramento, non si formano con le pensate dei professorini del centrosinistra che vogliono allestire le stampelle per Prodi né con le piccole trovate degli ideologini pentiti di Magna Carta per il centrodestra. Nascono dal fuoco delle lotte e sotto la spinta di culture politiche e di leadership forti che poco hanno a che fare con i marchingegni non obbliganti quali sarebbero quelli di un eventuale risultato referendario.
La seconda illusione riguarda l'idea che si possa ridurre la frammentazione partitica cancellando per via referendaria le eccezioni alle soglie attualmente previste per la rappresentanza. Sono discorsi che sento fare da una vita, da ultimo nel momento in cui è stata votata la legge attuale. A me pere che si possa mettere un freno alla frammentazione partitica solo se i leader responsabili, a sinistra come a destra, rinunceranno a strumentalizzare le frattaglie del voto accattando da una parte e dall'altra i clienti pronti a formare listarelle con il solo obiettivo di elemosinare posti e prebende. E a tal proposito è bene ricordare che una delle ragioni della proliferazione dei partiti è il sistema di finanziamento pubblico, mancando il quale nelle forme scandalose di oggi, probabilmente i partiti si ridurrebbero da 24 a non più di 5 o 6.
Più in generale, quando leggo che il referendum vuole «spingere al sistema bipartitico» mi chiedo da quale cultura politica esso sia sostenuto. È noto che l'itinerario per il bipolarismo ed ancora più per il bipartitismo, è ovunque passato attraverso il sistema maggioritario, innanzitutto attraverso un'elezione istituzionale diretta nazionale come nel caso del presidente della Repubblica o del premier. Tutto il resto è fantasia.
Ma veniamo agli aspetti positivi, anzi all'unico aspetto positivo. Il vero merito dell'iniziativa referendaria elettorale è l'iniziativa stessa. Perché, a ben guardare, i quesiti sono necessariamente sgangherati in quanto per tutte le materie, e tanto più per quella elettorale, è difficilissimo legiferare con il metodo delle forbici, l'unico utilizzabile nei referendum abrogativi. Se però oggi non si materializzasse tale iniziativa esterna, il Parlamento difficilmente sarebbe sospinto ad occuparsi della questione elettorale poiché nessun partito sega il ramo (sistema elettorale) dell'albero (partitocratico) su cui è seduto.
Dunque, nonostante le velleità, le illusioni e la vanità dei quesiti, ben venga il referendum elettorale. Da senior collega referendario mi permetto tuttavia di rivolgere un consiglio particolarmente a vecchi amici come Mario Segni, Augusto Barbera, Antonio Martino e Gianfranco Pasquino. Non fatevi impigliare dalle manovre di coloro che vogliono caricare il referendum dei loro interessi di bottega.
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