Nel 2000 si contavano più di 37.000 titoli sul Terzo Reich e tuttavia non diminuisce linteresse dei lettori e degli storici, come ha anche mostrato lacceso dibattito sul film La caduta, che ha coinvolto lopinione pubblica non solo tedesca. Ora R.E. Evans, uno dei più solidi storici inglesi, pubblica il primo volume della sua trilogia dedicata al regime hitleriano: La nascita del Terzo Reich (Mondadori, pagg. 635, euro 25).
E già da questa monografia si capisce che siamo a una svolta epocale negli studi storici sul Terzo Reich: questo saggio ha la fortuna di profittare di unampia messe di ricerche e studi parziali e soprattutto si prefigge di ripristinare, dopo decenni di necessarie analisi specialistiche, una scrittura aperta agli uomini di cultura e non solo agli addetti ai lavori, nel solco di una storiografia che sapeva «narrare» la storia «senza sacrificare il rigore analitico o la capacità di approfondimento». Non si capisce perché la cultura, la lettura debba essere sofferenza continua e non arricchimento e insieme intrattenimento e pochi eventi come la genesi del Terzo Reich si prestano a diventare materia epica, tragica, ma talvolta perfino comica come mostra magistralmente Evans con la ricostruzione degli anni monacensi del nazismo, quelli in cui i camerati avevano il loro quartier generale nelle fumose birrerie della capitale bavarese. Strani laboratori del nuovo Imperium, del Drittes Reich tra würst e boccali spumeggianti di birra. Parimenti travolgenti sono i ritratti dei rivoluzionari bohémien. Evans sceglie questo «metodo narrativo» anche perché mette a frutto la profonda rivalutazione delle storie, delle storie dei singoli con un radicale ridimensionamento dellegemonia delle cause oggettive sulle vicissitudini individuali, sicché la sua immensa ricostruzione storiografica è anche un affresco straordinario, godibilissimo della Germania subito dopo la sconfitta del 1918. Lautore ridisegna i destini dei vari personaggi che hanno animato la storia tedesca di quegli anni, come pure rintraccia le motivazione profonde, le concezioni intime e le suggestioni ideologiche che fruttificano negli anni della catastrofe dopo lumiliante trattato di Versailles, che innescò il revanscismo germanico. Evans riflette sul desiderio dei tedeschi di trovare finalmente una grande guida, come quella di Bismarck. Eppure questo snodo è decisivo per comprendere il carattere peculiare della rivoluzione nazionalsocialista che non è solamente linizio di una nuova era (come quella auspicata dai giacobini o dai bolscevichi), ma soprattutto la ripresa dellantico sogno sognato per più di mille anni dai tedeschi: il sogno dellImperium, tramontato solamente con il miracolo economico del secondo dopoguerra. La rappresentazione storica di Evans si inserisce quindi nel filone aureo della grande storiografia classica e non è un caso che esce quasi contemporaneamente allopera di Horst August Winkler.
Anche lo storico inglese mette al centro della ricerca luomo e il destino delle comunità nel raccontare la storia. Quando ad esempio rievoca la «generazione del fronte», quella per intenderci di Jünger, il suo racconto - sempre rigoroso, preciso, puntuale e fondato anche su vaste ricerche d'archivio - si accende nei toni drammatici che spettano a una generazione che si trova smarrita, sperduta, che si inventa unidentità generazionale nella missione di realizzare un sogno immane: restaurare il vero Reich dei tedeschi, non più quello delle dinastie, ma del Volk, dove Volk non è solo popolo, ma comunità mistica e insieme etnica, culturale, linguistica e - ahimé - sempre più razziale. Ma perché la razza? Quale tragica ricerca di un valore irreversibile, irrefutabile, fattosi carne, sangue, bios.
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