Altro che indecisi a tutto. Con l'apparente colpo di scena di ieri al Seminario Ambrosetti di Cernobbio - l'intervento del ministro Siniscalco, seguito alle dichiarazioni del vicepremier Tremonti e alle impeccabili parole del presidente Berlusconi - anche la delicata vicenda del governatore Antonio Fazio sta andando verso l'inevitabile soluzione.
Il premier si era augurato che l'interessato «agisse secondo coscienza» in una questione di credibilità istituzionale. Tremonti aveva confermato di essere da tre anni - dopo Cirio e Parmalat, prima ancora di Antonveneta e Bnl - convinto che Fazio dovesse ritirarsi. Ma non lo era come i tantissimi dell'opposizione che l'anno scorso lo osannavano e che adesso, come sciacalli, ne chiedono la testa. Ieri Siniscalco ha detto che, dopo la riforma (forse incompleta, ma decisiva) della Banca d'Italia varata venerdì dal governo, ci si aspettava un atto di sensibilità istituzionale del governatore, cioè le dimissioni che non sono venute. La «moral suasion», vale a dire l'arma impropria, vellutata e riservata, tanto cara ai banchieri centrali del mondo di ieri (massimamente in Italia), evidentemente non funziona, ha aggiunto il ministro con un certo humour.
Siamo davanti al massimo della correttezza istituzionale e nel contempo a una chiarissima posizione del governo: salva la reazione negativa del ministro Maroni, quasi a confermare le preoccupazioni di Berlusconi sui limiti delle coalizioni «non rette dalla democrazia della maggioranza». Ma sull'intera questione il centro-destra dà prova di grande responsabilità, equilibrio e fermezza. La riforma sostanziale della Banca d'Italia impostata nel quadro della difesa del risparmio e dei risparmiatori, per quanto da rafforzare e completare in analogia con i modelli europei (tutela della concorrenza), è tutt'altro che la «mezza cosa buona» precipitosamente declassata al «nulla» di Romano Prodi. Tanto è vero che questa riforma non l'hanno fatta i governi precedenti, la fa questo governo.
La vicenda personale del governatore Fazio non riguarda l'illegittimità di atti e comportamenti, bensì la credibilità dell'istituzione monetaria che per un così lungo tratto della nostra storia è stata simbolo di eccellenza e di responsabilità al servizio del Paese. Proprio perché istituzionale, la questione del governatore si intreccia di fatto con la riforma della Banca d'Italia per la semplice ragione che questa tocca in profondità sia le regole, sia lo «stile» dell'istituzione stessa, divenuti entrambi storicamente incompatibili tanto con i modelli di Banca centrale nazionale nell'ambito del Sistema europeo (che ha al vertice la Bce), quanto con qualsiasi modello contemporaneo di Istituto centrale. Ma soprattutto incompatibili con le esigenze dell'economia italiana. Al di là dei moralismi e della sciacallaggine, nell'albo dei governatori da Stringher a Einaudi, da Menichella a Carli, da Baffi a Ciampi, si può dire che Fazio ha accentuato l'ormai evidente anomalia italiana, la divergenza rispetto a quei modelli. Con ciò ha allargato e distorto - nel vuoto della politica o piuttosto al centro di un parallelogramma delle forze (debolezze?) in campo, soprattutto orientate alla conservazione - la surroga o funzione «vicaria» di supremo e a lungo indiscusso arbitro, giudice e giocatore nel campo vitale del credito, della finanza, del risparmio, dell'intera politica economica, ed oltre...
Le nuove regole, cioè la sostanza della riforma della Banca d'Italia, sono essenziali: fra l'altro verso una trasparenza che persino nel caso della Bce molti giudicano inadeguata, per esempio, rispetto alla Fed (a parte il numero dei mandati per il mitico Greenspan, che presto dovrà lasciare per la sua età, non per uno statuto). Anche altri aspetti sono in fondo eloquenti, senza escludere la proprietà, cioè i «partecipanti al capitale» della Banca: che non è mai stata questione di «controllati controllori», ma di passerella alla sacrale Assemblea, visione solenne di presenti e assenti, senza corrispondenza in nessun altro Paese. E questo mentre le «Conclusioni» del governatore, disponibili on-line, diventavano occasioni di esternazione sempre meno rare, anzi sempre più ininterrotte, quindi meno ghiotte. Era stato del resto Einaudi, il grande economista e statista piemontese, a introdurre non il mandato (che non lo è) ma lo stipendio a vita per i governatori: perché, dopo, non dovessero fare altro e potessero serenamente tacere.
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