Per la scalata Parmalat indagati marito e moglie

I pm di Milano accusano Fabio Canè, banchiere d’affari di Intesa, e Patrizia Micucci, capo dell’investment banking di SocGen, di insider trading e aggiotaggio. Entrambi volevano comprare il 15,3% dai fondi esteri. Ma per le due cordate concorrenti

La denuncia è partita da Collecchio,dove l’addi Parma­lat Enrico Bondi, nel febbraio scorso - quando si sentiva mi­nacciato dai fondi esteri Zenit, Skagen e Mackenzie che insie­me avevano il 15,3% del capita­le mentre i francesi di Lactalis compravano titoli in Borsa a pie­ne mani - ha fatto partire un esposto alla Consob. Da lì si è mossa anche la magistratura milanese, tenendo sotto con­trollo tutti i movimenti delle banche intorno a Parmalat. Sta di fatto che ieri, nella city mila­nese, è scoppiato il finimondo. Soprattutto perché a finire sul registro degli indagati per i due reati peggiori che ci siano per la reputazione dei banchieri d’af­fari è stata la coppia più nota del giro della finanza: Fabio Cané, uno dei boss di Banca Imi (Inte­sa Sanpaolo), per insider tra­ding; e sua moglie Patrizia Mi­cucci, capo dell’investment banking italiano di Société Générale, per aggiotaggio. Per­quisite anche le società di comu­nicazione (gruppo Brunswick Italia e la Image Building di Giu­li­ana Paoletti), che hanno veico­lato sui media le informazioni sulla scalata Parmalat del mar­zo scorso. Il fatto è che mentre Intesa cer­cava di mettere insieme una cor­data italiana per rilevare il 15,3% dei fondi, SocGen lavora­va al fianco di Lactalis, che già aveva rastrellato il 13%, per fare la stessa cosa. Quindi i due spo­si­erano in possesso di informa­zioni riservate sulla stessa ope­razione, ma su fronti contrappo­sti. Secondo i pm, nelle «chiac­chiere da cuscino» il marito avrebbe detto alla moglie i prez­zi su cui si trattava con i fondi, mentre quest’ultima avrebbe contribuito ad alterare il corso dei titoli. Il caso, come sottoline­ato a suo tempo dal Giornale , conteneva una pericolosa ano­malia, che avrebbe potuto scio­gliersi solo con l’auto-esclusio­ne di uno dei due coniugi dalla partita, come prevederebbe la deontologia professionale dei manager, molto ben pagati, che lavorano nelle banche d’af­fari. Come noto, alla fine i fondi hanno venduto a Lactalis, al ter­mine di una giornata convulsa, quella del 21 marzo conclusa a notte fonda. Le cose sono andate così: i rappresentanti dei tre fondi ar­ri­vano a Milano tra domenica 20 e lunedì 21. Assistiti da Lazard, presieduta da Carlo Salvatori, aspettano di incontrare Intesa e i Ferrero per vendere a loro. Ma dopo un pomeriggio di attesa vana, l’avvocato Benessia che assiste i Ferrero comunica al col­lega Cova, legale dei fondi, che i suoi clienti avrebbero prima in­contrato i francesi di Lactalis, per convincerli a vendere il loro 13%, l’indomani a Parigi. Per i fondi una notizia devastante: se Ferrero compra da Lactalis e mette insieme anche il 2% dete­nuto da Intesa, il loro 15,3% di­venta carta straccia. Così, notte­tempo, i fondi chiamano Lacta­li­s e vendono ai francesi a 2,8 eu­ro per azione. È su questi pas­saggi che i magistrati vogliono vedere chiaro. E con loro anche la Consob, che indaga anche sull’ipotesi di un’azione di concerto tra i fondi e Lactalis. E, pur se si trat­ta di un’ipotesi più remota,an­che di Intesa.

In quest’ultimo caso, tra l’altro, qualora si di­mostrasse un «concerto a tre», con il superamento tempora­neo del 30%, potrebbe scattare l’obbligo di un’Opa solidale e totalitaria a 2,8 euro per azio­ne, 20 cent più alta di quella lan­ciata da Lactalis.

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