Gli scritti teorici di un romanziere fantasy

Alcuni grandi scrittori dell’Immaginario hanno avuto la sfortuna di essere passati sotto il setaccio della cosiddetta critica «impegnata» che li ha distorti a suo uso e consumo. Eppure, bastava leggere le loro opere teoriche, vale a dire quei testi saggistici in cui veniva esposta la loro «poetica». Ad esempio Danza macabra di Stephen King, In difesa di Dagon di H.P. Lovecraft, Sulle fiabe di J.R.R. Tolkien. Ma nessuno vi fa mai riferimento per pigrizia, ignoranza o malafede.
Ora possiamo finalmente leggere cinque testi fra il teorico e il polemico di Michael Ende mai tradotti in italiano che Saverio Simonelli ha riuniti in Storie infinite (Rubbettino, pagg. 94, euro 10) utilissimo per comprendere cosa intendeva dire l’autore tedesco con i suoi capolavori Momo (1973) e La storia infinita (1979), scritti nel suo “esilio” italiano di Genzano, nei Castelli Romani, dove si era rifugiato dopo gli attacchi della critica conservatrice-progressista tedesca che lo aveva accusato, a causa delle sue favole, di «escapismo», cioè della solita «fuga dalla realtà», la bestia nera della Sinistra intellettuale dell’epoca.
Da tali argomentazioni si può capire cosa Michael Ende intendesse per «fantasia», al di là del messaggio immediato: solo Fantàsia può battere Nichilismo e Tecnologia senz’anima. Tanto per cominciare Ende è contro qualsiasi politica esplicita nella narrativa, contro una letteratura pedagogista che cerca d’indottrinare il pubblico, contro la «cerebralizzazione» dell’individuo odierno che non riesce ad andare oltre la razionalità. «Uno scrittore - afferma - non deve predicare per una visione del mondo, ma averne una che gli consente di trasmetterla attraverso visioni e immagini della storia che racconta».
Come tutti coloro che hanno capito il vero senso del fantastico, Ende afferma che esso è intessuto di miti che si esprimono per immagini, gli unici e le uniche universali. Aggiunge infatti lo scrittore tedesco di non avere intenzione di spiegare alcunché con i suoi libri «ma di trasmettere immagini», cioè qualcosa che non si deve spiegare esplicitamente ma s’intuisce e si capisce nel profondo.
Da questi concetti Ende, proprio come Tolkien, non può che passare alla strenua difesa delle fiabe nei confronti dei suoi detrattori e di tutti coloro che le vogliono stravolgere adattandole ai tempi. «La fiaba - afferma - parla attraverso immagini e il suo segreto sta nella pluralità dei suoi significati» (giacché, aggiungiamo noi, le immagini trasmettono simboli): di conseguenza l’interpretazione della fiaba attraverso «concetti astratti» come fanno gli esperti del folklore è un errore. Infatti, «là dove c’è il mistero (...) il sogno (...), il razionalismo risulta mortifero».
Ende, in uno dei saggi, prende di petto quei «pedagogisti benpensanti che si sforzano di sterilizzare le fiabe popolari per eliminare da esse ogni passaggio che contiene una qualche crudezza», facendo l’esempio del famoso Il principe ranocchio, il cui finale viene modificato per paura che i bimbi poi se la prendano con questi batraci! Tale ridicola incomprensione, che oggi, a 15 anni dalla morte di Ende, ha raggiunto i vertici grotteschi del buonismo e del politicamente corretto, nasce dal fatto che gli adulti in genere, e certi specialisti in particolare, «non sanno più comprendere la realtà “altra” della fantasia», mentre viceversa il bambino «riesce a dimenticare temporaneamente la realtà esterna senza però mai confondere i due piani» (un esempio è proprio il Bastiano della Storia infinita), sicché non verranno condizionati dalle crudeltà favolistiche. Invece l’adulto ha una «mentalità assolutamente deformata in senso naturalistico» e vede solo l’aspetto esteriore di una scena truce, mentre il bambino vede solo l'immagine descritta dalla fiaba «che non è affatto intesa in senso naturalistico».


Michael Ende ha dunque utilizzato nelle sue opere immagini tratte dal profondo di quello che potremmo definire l’Immaginario collettivo dell’umanità, e quindi da ognuno comprese, «immagini che precedono i concetti», quindi pre-logiche e universali e comuni a tutte le favole, le leggende e i miti dei popoli: «Ulteriore conferma che la cosiddetta letteratura fantastica o favolistica e i miti di tutti i popoli e di tutti i tempi sono sorprendentemente simili nella loro struttura».

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