Cari registi italiani quando fate flop è solo colpa vostra

Dopo Bellocchio, Virzì e Garrone, tocca a Muccino piagnucolare. Ce l’ha con Hollywood, che snobba Quello che so sull’amore

Cari registi italiani quando fate flop è solo colpa vostra

Muccino/1: «Credo che Hol­lywood sia molto aperta a nuovi stimoli, a talenti freschi e che gli piaccia il mio modo di fare com­media con un tocco realistico e ottimista di marchio neoreali­sta ». Muccino/2: «Hollywood è un’industria spietata dove la gente racconta balle dalla matti­na alla sera. Contano solo il marketing e il profitto. Qui il no­stro modo di concepire la com­medi­a è come pretendere d’im­porre il divieto delle armi in Loui­siana ».

Che cosa è successo a Gabrie­le-Muccino tra la prima dichiara­zione al Messaggero di appena venti giorni e fa e la seconda di ieri a Repub­blica ? Sempli­ce, il suo nuo­vo film, Quello che so sul­l’amore , usci­to nel fine setti­mana negli Stati Uniti (il 10 gennaio in Italia con Me­dusa), è arriva­to sesto con so­lo 6 milioni di dollari in più di 2800 sale. Ma più che la débâcle al bot­teghino - per capirci il suo primo film sta­tunitense, Al­la ricerca della felicità , aprì con 26 milioni e mezzo di dol­lari e il secon­do, Sette ani­me, con quasi 15 nello stesso numero di sa­le - ciò che ha veramente scottato il regista ro­mano è stata l’accoglienza nega­tiva della critica. La recensione più benevola? «Non andrà agli Oscar né farà centro per l’origi­nalità ma è abbastanza giusto per il suo pubblico di riferimen­to » (Leonard Maltin). Quella più cattiva? «Uno spreco irragio­nevole di tempo e di talento. È il tipo di film programmato per un canale via cavo che avete appe­na eliminato dal vostro pacchet­to » (Peter Sobczynski). Ma sul film, nonostante un cast di tutto rispetto (Gerard Butler nel ruo­lo d’un fascinoso ex campione di calcio che allena la squadra del figlio e subisce le pressanti at­tenzioni delle mamme degli al­tri compagni tra cui Jessica Biel, Catherine Zeta-Jones e Uma Thurman), non sono state tene­re neanche le testate più presti­giose come il New York Times («Non è particolarmente credi­bile o accattivante»), Variety («Una commedia misogina») o Hollywood Reporter ( «Un cast at­traente non riscatta una sceneg­giatura andata a male»). Così il sito statunitense rottentomato­es.com ha contato impietosa­mente 62 critiche negative su 63 (punteggio medio 3,4 su 10).

Ed ecco allora che di fronte a un insuccesso s’inizia subito a gi­rare sempre lo stesso film dal ti­tolo «Gli incompresi». Dove gli attori protagonisti sono i nostri registi che non si sentono mai ca­piti. Così solo ora Muccino sco­pre che in America «ero venuto a fare il gladiatore e non ero at­trezzato ».Tanto che nell’intervi­sta stracult a Repubblica viene dipinto dall’inviato a Manhat­tan Curzio Maltese come un ve­terano di guerra: «30 chili in più di stress, l’aria lisa di un reduce. Sembra lo stanco zio d’America del trentenne felice e sconosciu­to dei tempi di L’ultimo bacio ». Come a dire: il sogno americano è un bluff e la perfida mecca del cinema - chissà perché - uccide in grembo i propri talenti. Non appena le cose vanno male, ov­viamente.

E la lista degli incompresi si al­lunga. Marco Bellocchio, allo scorso festival di Ve­nezia quando rima­se a secco di premi per il suo Bella ad­dormentata , andò giù duro con la giu­ria capitanata da Michael Mann: «Non ci vengano a dare lezioni su cosa gli italiani dovreb­bero raccontare al cinema». Stesso di­scorso per Paolo Virzì che ora twitta solidarietà a Mucci­no e che lo scorso anno, quando il suo La prima cosa bella non entrò nel­la pre-lista per l’Oscar diede la col­pa alla mancanza «di un sentimento di compattezza» rinfocolando la po­lemica con un altro regista, Luca Gua­dagnino, il quale so­steneva­come mol­to più forte la candi­datura per l’Italia del suo Io sono l’amore . Ultima­mente anche Paolo Franchi, il cui E la chiamano estate è stato sbeffeggiato al Festival di Roma, se l’è presa con l’universo mondo e poi anche con il suo distributo­re, accusato a torto di non aver sostenuto il film, mentre il pri­mo a non crederci è stato il pub­blico stesso.

Infine ci si è messo anche Matteo Garrone che l’al­tro giorno ha addebitato i risulta­ti non esaltanti del suo Reality (due milioni di euro al botteghi­no) a «seri problemi di comuni­cazione con un pregiudizio, for­se legittimo, che l’ha fatto passa­re come un film di denuncia sul Grande Fratello, penalizzando­lo enormemente ». A quando un mea culpa ?

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