Zlata sapeva che per il resto della sua vita si sarebbe ricordata della madre seduta al tavolo con la tivù accesa sulla telenovela: un uomo stava baciando appassionatamente una donna. La madre aprì un baule di vecchi abiti il cui rosso tendeva ormai al bruno, con ricami dorati lungo i bordi esaltati dal buio. Tra quella roba la madre scelse un vestito da ragazza nero con motivi ricamati a fili d'oro e d'argento simili a quelli scolpiti sulle pietre antiche.
So che non puoi metterlo adesso, disse la madre, perché magari ci sarà bisogno di correre. Ma vediamo come ti sta. Ho sempre pensato...
Zlata voltò di scatto le spalle tremanti e si asciugò gli occhi. Poi raffiche di mitragliatrice ripetute e gratuite.
Va' con Dio, le disse la madre.
La sorella maggiore aveva il capo chino. Il padre era stato ucciso mesi prima. Le due sorelle più piccole si misero a piangere e a strillare. Smettetela, disse loro la madre. Non siete contente che lei abbia una possibilità? Ora aiutate vostra sorella a prepararsi.
Quando Zoran passò a prendere Zlata, con tutti i soldi che la sua famiglia era riuscita a raggranellare cuciti all'interno delle ginocchia dei pantaloni, la madre della ragazza, con la sua voce profonda, gli chiese di difendere la figlia a costo della vita.
Lo giuro, disse lui, e a quel punto lei lo abbracciò per la prima volta. Zlata guardò fuori dalla finestra. Sotto un tramonto parzialmente nuvoloso il fiume pareva di rame, e gli alberi delle colline nemiche cominciavano a fondersi in una trama uniforme. Pensò che il fiume aveva quasi il colore degli occhi di Zoran.
Avete detto addio!, esclamò la madre. Ora andate!
Poiché muoversi in gruppo era pericoloso, nessuno li accompagnò all'inizio della loro fuga. Procedendo a tentoni per le strade buie, trovarono un androne dove baciarsi. La lingua di Zlata nella bocca di Zoran; le mani di lui sul seno di lei.
Dopo questa notte dormiremo sempre nello stesso letto, le sussurrò.
Che ore sono?
Le nove e quaranta.
Mio Dio, Zoran! Dobbiamo sbrigarci...
Alle dieci meno dieci arrivarono al ponte. Mi piacerebbe paragonare il Vrbanja Most al ponte bianco di Vranje, costruito da un antico pascià la cui figlia si era annegata dopo che lui aveva fatto uccidere il pastore serbo colpevole di amarla. Purtroppo il Vrbanja Most non ha niente di monumentale. Quali leggende potrebbero mai nascere su una struttura tanto ordinaria?
Quindici anni dopo ho incontrato la madre di Zlata, che abitava da sola nello stesso appartamento della città vecchia. I capelli erano quasi color fumo di sigaretta. Mi ha detto: Qui le persone si prendevano cura le une delle altre. Quando vivevamo negli scantinati, ogni volta che avevamo del cibo lo cucinavamo e lo condividevamo. Forse dopo la guerra siamo diventati più egoisti.
Mentre parlavamo della guerra, gli occhi sembravano sprofondarle sempre più nelle orbite. All'inizio lei non credeva che a Sarajevo potesse succedere qualcosa; poi era caduta la prima granata; e alla fine di tutto lei non riusciva a convincersi che fosse finita.
Con voce roca da fumatrice mi ha raccontato del terzo anno, quando una scheggia di granata le era entrata nella milza. C'era una coppia che si baciava alla televisione. Mi ha mostrato una fotografia di Zlata, e gli echi dei suoi passi lungo il corridoio mi esplodevano nella testa come colpi di pistola.
Volevano attraversare il ponte e sono stati uccisi sul lato dei cetnici, mi ha detto l'anziana donna.
Avevo sempre pensato che quello che era successo fosse da imputare a un sadico tradimento, ma la madre di Zlata ha detto: Tutti quelli che tentavano di passare il ponte venivano uccisi. Solo certi ponti erano aperti. Non avevano idea. Chi non aveva idea?
I serbi. Non gli importava di nessuno, ha spiegato, battendo piano i polsi robusti sul tavolino.
La famiglia di Zoran era sparita. Nessuno sapeva dove, e a me è sembrato saggio non indagare. Me ne sono andato. Un ubriaco ha inveito contro di me da dietro la carcassa di un aereo.
Il vecchio pensionato sulla riva nord della Miljacka non se li ricordava, perciò ho domandato ad altri.
Credo che lei fosse musulmana, ha detto una donna seduta su una panchina. Mentre un'altra sosteneva: No, no, lui era il musulmano, e lei la serbkina.
Concordavano, almeno, sul fatto che Zlata era stata colpita per prima. All'addome, forse, perché aveva continuato a gridare (per ore, dicevano, ma spero che esagerassero) nella pozza di luce che il nemico aveva puntato in quella terra di nessuno. Mentre tentava disperatamente di trascinarla indietro verso la città assediata, Zoran fu colpito alla spina dorsale da una singola pallottola e poi di nuovo alla testa, il che, tenendo conto della distanza, è dimostrazione di una certa mira, anche se va detto che i cecchini avevano avuto mesi per affinarla. Ricamandoci su, qualcuno dice che all'alba l'agonia di Zlata non era ancora finita. Che ciò sia vero o no, tutti ammettono che i cadaveri dei due amanti rimasero a decomporsi per giorni, perché nessuno osava avvicinarsi. Alla fine, quando la notizia arrivò sulle pagine della stampa internazionale, la cosa divenne motivo d'imbarazzo, e fu concordata una nuova tregua. E finì proprio come Zoran aveva promesso alla sua sposa, perché furono sepolti in un'unica tomba.
© 2014 by William T. Vollmann © 2016 Mondadori Libri S.p.A., Milano pubblicato in accordo con The Italian Literary Agency
traduzione di Gianni Pannofino
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