Terry Gilliam è giunto al Lido con la sua aura di regista di culto visionario e creatore di mondi indimenticabili. E giustamente, perché alcuni suoi film, come Brazil e L'esercito delle 12 scimmie, sono punti fermi nella storia del cinema. Negli ultimi anni però è diventato un regista bulimico, autocitazionista. A questa deriva, che coincide con una certa senilità del suo cinema mascherata però dai mondi colorati che ama mettere in scena, appartiene The Zero Theorem, in concorso alla Mostra.
Anche stavolta il mondo viene rappresentato in un futuro distopico, che però potrebbe essere il tempo presente (le automobili che vediamo girare sono le Twizy della Renault). In una chiesa sconsacrata, un eccentrico genio del computer, Qohen Leth interpretato da un pelato Christoph Waltz afflitto da angoscia esistenziale, viene delegato dal Management (Matt Damon) a lavorare a un misterioso progetto, «Il teorema zero», che mira a scoprire una volta per tutte il fine dell'esistenza umana, o la sua assenza. Ma solo nel momento in cui conosce la forza dell'amore e del desiderio, che ha le fattezze dell'intrigante Bainsley (Mélanie Thierry), riesce a comprendere la ragione autentica del suo essere. Forse. Perché ognuno potrà vederci quello che vuole in questo film, girato a Bucarest per via del budget modesto, sempre in bilico tra riflessione filosofica e un'ironia fin troppo grottesca (nella tradizione dei Monty Python di cui il regista ha fatto parte, unico statunitense). «The Zero Theorem - spiega Gilliam - ha più rapporti con Brazil di quanto non pensassi. Il futuro è realtà, ci ha imprigionati, questo è un film sull'oggi e su come siamo rimasti impigliati nella tecnologia che non è né buona né cattiva ma che può sia unire che dividere».
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