Si intitola Gli eredi della terra (Longanesi(pagg. 905, euro 22)) il nuovo romanzo storico di Ildefonso Falcones che costituisce il seguito del suo superbestseller La cattedrale del mare. Si tratta di un libro epico e d'avventura che conferma la grande capacità dello scrittore spagnolo di costruire grandi affreschi con una sapiente coscienza del ritmo narrativo e un'abilità unica nello scovare personaggi originali che possano permettere ai lettori di viaggiare nel passato.
Questa volta Falcones propone «una Barcellona protagonista nel Mediterraneo che, pur non avendo ancora il porto costruito, viveva del commercio marittimo, del mare e per il mare». Una città capace di rivaleggiare all'epoca con Genova, Pisa, Amalfi, Venezia e che nel giro di pochi anni vivrà terribili sconvolgimenti politici e sociali. Come spiega lo stesso Ildefonso Falcones «la storia di Barcellona tra la fine del XIV secolo e l'inizio del seguente è strettamente intrecciata con avvenimenti interni ed esterni di quel periodo tra i quali ebbero significative conseguenze l'avvicendamento dinastico in Catalogna, Aragona e Valencia e gli altri regni e lo scisma d'Occidente, nonché le continue guerre per mantenere o ingrandire il territorio e per difendere il primato e i privilegi commerciali della città».
Perché ha deciso di dare proprio dieci anni dopo una prosecuzione al suo La cattedrale del mare?
«Ho impiegato tre anni a scrivere Gli eredi della terra ed ero consapevole della necessità di dare una prosecuzione al mio primo romanzo. Era un potente richiamo dal punto di vista narrativo, ma è stato casuale che io l'abbia pubblicato in occasione del decennale del mio debutto. La Barcellona che racconto in questa seconda storia è molto vicina a quella precedente, ci sono poche differenze anche perché la tecnologia all'epoca non aveva uno sviluppo così rapido come sarebbe avvenuto dopo l'avvento della rivoluzione industriale. È vero che racconto le vicissitudini di un nuovo barrio (quartiere, ndr) come il Raval che crebbe in quel periodo e narro le vicissitudini della costruzione dei nuovi cantieri navali e dell'Ospedale della Santa Croce, ma sostanzialmente la città è la stessa che avevo narrato in precedenza».
Ma crede che qualcosa dello spirito di quella Barcellona sia sopravvissuto oggi?
«No. Lo spirito di apertura e commerciale di quel periodo non esiste più. All'epoca la città non aveva porto e non esistevano frangiflutti di alcun genere... Questo permetteva in maniera più agile di scaricare e caricare le navi, senza costringerle a un attracco fisso. All'epoca le merci non erano né pesanti né ingombranti e quindi logisticamente tenerle attraccate in un porto sarebbe stato oneroso e allo stesso tempo pericoloso. Non avere una flotta fissa in un luogo permetteva di gestire meglio l'emergenza delle tempeste e soprattutto impediva attacchi improvvisi da parte dei nemici, che avrebbero potuto in qualche modo insidiare le navi. Barcellona è stata la prima città al mondo a creare una specifica legislazione marittima che venne rispettata nel tempo».
Essere stato un avvocato civilista quanto l'ha aiutata nella sua carriera di narratore?
«Studiare il diritto antico e nello specifico quello latino non era obbligatorio per la mia laurea né ti dava accesso a conoscenze specifiche da poter utilizzare nelle cause civili, ma la mia passione personale specifica per quella materia mi ha permesso di avvicinarmi successivamente allo studio del diritto medievale con competenza di causa. Le leggi del periodo che racconto nel mio romanzo erano basate su una specifica casistica e su aspetti davvero concreti, leggendo quelle norme si può davvero comprendere come viveva la gente a quell'epoca anche se la visione penale non dev'essere l'unica da utilizzare per poter comprendere usi, costumi e tradizioni del passato».
Al centro del suo romanzo c'è il personaggio di Hugo che diverrà coppiere e produttore di vino.
«Quella del vino non è di certo una metafora del mondo che racconto. Mi serviva descrivere qualcosa di originale e di poco narrato e così ho scoperto che nel mio Paese si erano interessati in pochi alla storia della produzione e del consumo del vino in epoca medievale. Pensate che le tecniche che vennero applicate all'epoca erano le stesse del periodo romano e gli spagnoli avevano poca competenza in quel settore, perché la precedente dominazione mussulmana aveva comportato la messa al bando dell'alcool.
Il mio Hugo è a suo modo un innovatore che cercherà di produrre vino che duri negli anni, basti pensare che Plinio raccontava che il Salerno poteva arrivare a sette, dieci anni di età e favoleggiava di orci contenenti vini centenari, combattendo con la richiesta quotidiana di quel prodotto considerato un bene di prima necessità. Purtroppo il vino di cui racconto io era molto giovane e spesso molto acetoso, ma portò alla nascita di nuovi quartieri a Barcellona dove la vite venne curata in maniera particolare ed unica».
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