Morto Majorino, il suo poema dantesco chiamava a raccolta la Milano allucinata

Era nato nel 1928. Intruppato nella linea lombarda, è andato ben oltre

Morto Majorino, il suo poema dantesco chiamava a raccolta la Milano allucinata

L' hanno frainteso tutti, lui ne sorrideva, gli piaceva essere un rebus. Milanese, nato nel 1928, Giancarlo Majorino è stato intruppato a forza nella «linea lombarda», categoria critica criptica come poche, a cui apparteneva per accidente topografico più che estetico. Nella fatidica antologia Poeti italiani del secondo Novecento, architettata da Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi per Mondadori, è installato in un hangar, «L'etica del quotidiano», che non vuol dir nulla, tra due poeti, Giovanni Raboni e Giampiero Neri, diversamente eccezionali e affatto diversi da lui. Il fatto è che Majorino, poeta inafferrabile, dedito agli eccessi lirici, è stato, forse, l'ultimo epico nel nostro canone sbrindellato; più prossimo a Ezra Pound che a Elio Pagliarani (a cui lo avvicinarono, per quel libro d'esordio, La capitale del Nord, edito da Schwarz nel 1959), nell'orbita di Dino Campana più che in quella di Raboni (più giovane di lui, per altro). Aveva la faccia sfilettata da un falò, pareva una torcia, come quella sua poesia, magnetica, raccolta in Prossimamente (Mondadori, 2004), titolo pessimo per un libro bellissimo: «era una torcia grandiosa stupenda a vedersi/ impressionava quel colpo da urto in qualcosa/ che prima e adesso subitaneo ancora/ dilatavasi in furibonda eco/ e già una parte del cielo si listava di nero». Era istrionico, ironico, sagace, coltivava l'arte del neologismo: in questo Paese di poeti operai, di lirici col tubino, sapeva turbare. Dal 1969 s'era messo a erigere un poema: estroso, proteiforme, inaudito, ovviamente dantesco. Suddiviso in 21 libri per 131 canti con l'aggiunta di un vasto Paradiso nervoso, fu pubblicato da Mondadori nel 2008 come Viaggio nella presenza del tempo. La quarta era tonante: «Questo straordinario poema, scritto dal 1969 al 2007, è sicuramente uno degli eventi di maggior rilievo della nostra poesia contemporanea». Tanto straordinario da essere pressoché introvabile nei circuiti librari. Nel poema Majorino convoglia la Milano allucinata, l'ordinaria ordalia dell'uomo, in una lingua che ha il coraggio di essere vasta, ambigua, con mille vipere dentro («crani animaleschi vengono su/ si tratta di nettarli, ordinarli e/ ficcarli sotto, tramutati a spingere»). Aveva il lucore bronzeo del grande poema americano Paterson di William Carlos Williams, ad esempio , era in sintonia con le folgoranti visioni di Philip K. Dick (nato nel suo stesso anno), ha anticipato il caos Antonio Moresco. Dietro la posa aristocratica, le volute arcane, Giancarlo Majorino nascondeva un coyote, lo sciacallo della sera evocato nei testi sacri. Aveva fondato la Casa della Poesia di Milano nel 2005, ne era il presidente.

Le opere grandi non lo intimorivano, ha scritto molto, perché per lui la poesia era una pratica, un'arte marziale più che la vendemmia dell'ego: sempre per Mondadori, nel 2015 pubblica Torme di tutto, nel 2018 La gioia di vivere. Il meglio l'aveva già germinato, questo poeta epico in un paese anti-epico, vecchio da sempre per eccesso di candore («è nato e vive a Milano da quaranta milioni di minuti circa», scrive in una sua biografia), che definiva la donna «bella nave di carne, fiordo irresistibile crescente incendio» e la nostra «l'epoca del gremito/ un insieme roboante e misterioso», fitto, tuttavia, di rivelazioni «quali stracci di luce».

Molti anni fa lo conobbi grazie a Federico Italiano, un grande poeta che di quel poeta magnificava le gesta linguistiche. Majorino mi afferrò il braccio. Aveva lo sguardo innocente e stravolto. Mi parve di vedere Ezechiele, il profeta delle ossa che risorgono. Era un uomo gentile.

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