«Ostaggi» soprattutto di noi stessi

Il testo di Angelo Longoni in scena alla Sala Umberto di Roma

Tiberia De Matteis

Siamo tutti prigionieri. Quando la crisi collettiva diventa questione individuale, la presa di coscienza è immediata e profonda. È lo scopo abilmente raggiunto dal drammaturgo e regista Angelo Longoni, che ancora una volta ricorre a uno spaccato di realtà per stimolare il pubblico a riflettere su se stesso e sulla società. Nello spettacolo Ostaggi, in scena alla Sala Umberto di Roma fino al 20 novembre, un rapinatore occasionale, a cui Gabriele Pignotta dona sfumature correttamente goffe e nevrotiche, si rifugia in una panetteria e coinvolge nella sua avventura disperata il padrone della bottega, un convincente Pietro Genuardi, una pensionata ottantenne, magistralmente restituita nella sua verità non rassegnata da Silvana Bosi, una prostituta dal cuore d'oro e dal passato più che rispettabile, a cui Michela Andreozzi conferisce verve e incisività e un extracomunitario siriano, che Jonis Bascir caratterizza con precisione e svagata quanto trascinante ironia. La macchina scenica perfetta sviluppa la trama con ritmo e suspense in un gioco pirotecnico di battute esilaranti che suscitano una potente e liberatoria immedesimazione degli spettatori, ma al contempo toccano corde emotive sensibili riguardo alle reazioni di varia umanità che una condizione di pericolo riesce a scatenare.

La minaccia interna ed esterna, con il mondo chiuso fuori dalla saracinesca e riproposto però in tutte le sue contraddizioni dalle vite asserragliate nel locale, è il motore di un'azione che da fisica si muta in psicologica. Il bene e il male coesistono e si scontrano nell'anima di ognuno e nella relazione forzosa in un evento teatrale di preziosa godibilità e intrigante valutazione del nostro presente.

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