Naturalmente Django Unchained non è uno «spaghetti western» o un «macaroni western» come il nostro genere è anche conosciuto e apprezzato negli States nonostante gli strali della critica italiana dell'epoca con Goffredo Fofi che ne scriveva come di «semplicemente merda». E non è nemmeno un western classico. Non è epico, non è iconico (ad esempio manca la bara che il Django originale di Franco Nero, qui in un piccolo cammeo, trascina per il film di Sergio Corbucci), nemmeno tanto postmoderno. Ma è un film di Quentin Tarantino. Che, come nel precedente Bastardi senza gloria, non usa gli stilemi di un genere cinematografico (in quel caso sempre il nostro «macaroni war movie» di Quel maledetto treno blindato di Enzo G. Castellari) ma la loro parvenza (condita qui però da una splendida colonna sonora piena di citazioni con Django di Luis Bacalov cantata da Rocky Roberts oppure con l'inedita Ancora qui composta da Ennio Morricone e scritta e interpretata in italiano da Elisa) per raccontare qualcos'altro. Lì i nazisti mentre qui c'è l'America dello schiavismo due anni prima dello scoppio della guerra civile. In un Sud dove gli americani sono ritratti come dei veri e propri bifolchi (straordinaria la sequenza di presa in giro dei prototipi del Ku Klux Klan con un irresistibile Don Johnson che mette alla berlina Nascita di una nazione di David W. Griffith e lo stesso John Ford incappucciato in quel film) mentre i neri sono intelligentissimi e gli europei colti. Una rappresentazione che non è mai banale ma profondamente complessa.
Che scava nei personaggi e nei loro rapporti come poche volte al cinema ma tante volte nei film di Tarantino. Così perdiamo quasi subito di vista il tema centrale che vede lo schiavo afroamericano Django (interpretato da Jamie Foxx) tentare di ritrovare la moglie Broomhilda venduta come schiava all'inizio del film. Perché per far questo Django si unirà al Dott. King Schultz, un cacciatore di taglie di origine tedesca interpretato filologicamente dall'immenso Christoph Waltz. Così iniziamo subito ad appassionarci al rapporto tra questo peculiare e colto sedicente dentista europeo con Django a cui, come un mentore, insegna le tecniche per ricercare i criminali vivi o morti (più che altro morti) e a cui racconta la saga tedesca dei Nibelungi e la comune ricerca di Sigfrido per l'amata.
La loro caccia troverà soddisfazione quando giungono all'immensa piantagione «Candyland» che appartiene al potentissimo e spietato Calvin Candie interpretato da Leonardo DiCaprio in una delle sue prove più convincenti. Qui il film, che ha una durata ragguardevole ma quasi obbligata di due ore e quarantacinque minuti, si prende tutto il tempo per raggiungere apici narrativi e di messa in scena che catalizzano tutta l'attenzione dello spettatore ipotecando il resto dell'opera. Perché a «Candyland» troviamo tutt'insieme Django, la sua amata Broomhilda (la splendida Kerry Washington), il Dott. Schultz, Calvin Candie con il suo schiavo di fiducia Stephen (Samuel L. Jackson). I dialoghi, l'escamotage per la liberazione e l'ambaradan che ne scaturirà con il sangue che scorrerà a fiumi sono come un film a parte. E che film! Le sequenze dentro la villa palladiana fanno capire come Tarantino sia un grande regista di interni che, come in una sorta di kammerspiel, ci mostra da vicino i personaggi e le loro incredibili sfaccettature. Nella granguignolesca lotta in salotto tra due mandingo vediamo già la fine stessa dell'annoiato Calvin Candie, del Sud e del mondo che rappresenta a guerra civile non ancora iniziata. Nel rapporto con lo schiavo Stephen che a un certo punto, come un padre, fa capire al giovane e sprovveduto padrone cosa vogliono in realtà i due ospiti della piantagione c'è tutta l'ambiguità degli esseri umani.
E nella grande esplosione della tenuta c'è il regolamento dei conti di Tarantino con la storia americana dopo quella europea nella sequenza speculare dei nazisti uccisi e bruciati, Hitler in testa, di Bastardi senza gloria. E forse non c'è due senza tre- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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