L'impresa di Alex Schwazer ha stupito, commosso e sollevato due interrogativi. Il primo decisamente costruttivo, il secondo assolutamente distruttivo. Il primo. Quello più importante: dopo aver visto il marciatore azzurro tagliare il traguardo nello stadio delle Terme non vincendo, bensì dominando con oltre tre minuti di vantaggio sul resto del mondo e la seconda prestazione mondiale stagionale, in molti si sono domandati se davvero, oggi, il talento sia più forte di qualsiasi doping. Perché è questo il messaggio che la discussa e commovente impresa del ragazzone ha inviato a tutti. Si può tornare dopo essersi rovinati col doping e si può farlo dopo 4 anni di purgatorio e vergogna e però anche di lavoro, sudore circondati solo da persone giuste. «Sì», la risposta è proprio «sì, il talento, ora, è più forte del doping». Parola di Sandro Donati, una di quelle persone giuste di cui si è saputo circondare Alex, anzi, la persona più giusta, capace come è stata di resuscitare l'uomo e l'atleta Schwazer. «All'inizio, con lui, ero un po' sospettoso, poi osservandolo giorno dopo giorno mi sono reso conto della sua linearità di comportamento e della crescita... Quanto alle doti - prosegue Donati -, sì, la mia esperienza dice che la predisposizione più allenamenti di qualità ben organizzati e personalizzati riescono a valorizzare il talento consentendo l'ottenimento di risultati notevolissimi».
Molto bene. Allora si può sognare. Si può sperare e credere che l'impresa da inferno e ritorno di Schwazer nella 50 chilometri di marcia possa diventare il manifesto di un altro sport. Quello dove ad alto livello i controlli sono tali e tanti da impedire al doping di avere senso e forza attrattiva per gli atleti.
Nel ciclismo, che proprio per averne abusato per primo si è con anticipo messo a nudo di fronte alla lotta al doping, i controlli sangue-urine sono realtà ormai dal 2006 e il passaporto biologico dal 2007. Questi, insieme, hanno segnato la linea di demarcazione tra il doping che fu e l'ultimo doping. I medici dello sport impegnati nella lotta alle droghe, lo chiamano proprio così: ultimo doping. È quello misero che riesce a scappare dalle maglie strette dei controlli. Gli atleti di alto profilo lo evitano perché i rischi di essere presi sono enormi e i benefici minimi. «Una volta» conferma Donati, l'incidenza del doping sulle prestazioni di un atleta poteva essere enorme, per dire: un 14 di emoglobina poteva passare a 18 e la differenza di prestazione diventava enorme. Ora i malintezionati, se solo ci provano, possono al massimo destreggiarsi con minidosi il cui effetto a livello prestazionale è davvero blando».
Il secondo interrogativo fa tristezza ma questo è. Domenica l'australiano Jared Tallent, oro di Londra e secondo a Roma aveva detto: «Vincere così dà l'idea che abbia trionfato un baro». Ieri ci ha pensato il primatista del mondo, il francese Yohann Diniz: «Il suo ritorno è una brutta notizia.
È una persona cattiva». Questo su twitter. E poi ai giornali: «Avrei scommesso sulla sua vittoria, ha dei bei resti...». Riferito al doping. Ecco. L'interrogativo, dunque, è: ma sono tutti così acidi e malevoli nella marcia?
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