Tu chiamale se vuoi... motivazioni. Come ogni anno le ultime partite del campionato regalano lo stesso ritornello. Squadre che hanno raggiunto l'obiettivo personale, contro formazioni in corsa per traguardi importanti, Champions o salvezza che siano. Da una parte quelli che «sono partite che valgono quel che valgono...», Allegri dixit; dall'altra quelli del «se la Juve fa il suo dovere...», le parole di Donnarumma. Ma il refrain che va per la maggiore in questi giorni è la contemporaneità delle partite, materia su cui si esercitano tecnici e soprattutto dirigenti degli stessi club che in tempi non sospetti hanno venduto a suon di milioni i diritti tv, offrendo partite a orari diversificati fino alla penultima giornata. Intascando milioni di euro. Peccato che adesso scoprano che per garantire la regolarità del campionato bisognerebbe giocare tutte le partite alla stessa ora. È un problema tutto italiano. In Premier League domenica si è assegnato il titolo all'ultima giornata. Nel turno precedente il Liverpool aveva giocato di sabato, il Manchester City due giorni dopo, nel famigerato monday night che l'Italia ha deciso di scopiazzare. Una lezione inglese, più della doppia finale «europea». Ma noi siamo maestri nel fermarci a guardare il dito, quando dietro c'è la luna. La colpa non è di chi ha vinto lo scudetto con cinque giornate d'anticipo o di chi si è salvato con tutta tranquillità. La vera questione sul tavolo è un campionato con venti squadre, che non ha ragione di esistere. La riforma che lo riporterebbe a diciotto, giace sepolta da qualche parte.
D'altra parte significherebbe meno soldi. E quando si parla di quelli, ci si dimentica della presunta regolarità, a cui ci si appella quando l'obiettivo rischia di sfuggire. I milioni incassati a qualcuno fanno venire la memoria corta. DPis
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