Per l'ennesima volta i dipendenti del sito archeologico di Pompei si sono messi in assemblea causando la chiusura del museo a cielo aperto e costringendo i molti turisti a ore di attesa fuori seduti per terra. All'apertura poi gli addetti erano visibilmente seccati di avere a che fare con quei «rompiscatole di visitatori» che rompono il loro tran tran.
Ad ogni domanda l'inevitabile risposta era «Che vuole?» mentre mi sovviene che in Usa, presso qualsiasi museo o parco, ogni richiesta di informazioni ha come primo riscontro la frase «Can I help you?».
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Caro Casati, non so quali siano esattamente le lamentele e le rivendicazioni dei custodi di Pompei. Ma credo di poter dire che il modo in cui le avanzano -facendo carne di porco d'un bene storico, culturale, turistico inestimabile- provoca indignazione, per non dire disgusto. I custodi di Pompei non sono proletari alla fame la cui rabbia deflagra con violenza. Appartengono alla privilegiata categoria dei dipendenti pubblici: che non temono e non rischiano il licenziamento anche se il servizio cui sono addetti funziona in maniera indecente. E qualora si trattasse non d'un servizio pubblico ma d'una azienda privata dovrebbe, se gestito a quel modo, dichiarare bancarotta. Protetti dalla corazza dell'illicenziabilità i custodi di Pompei possono prendersi il lusso di frequenti assenze, doglianze, manifestazioni.
Alle quali gli edili dei cantieri e gli operai delle fabbriche fanno ricorso raramente, soprattutto in questi tempi di crisi, perché sanno che, se esagerano nelle pretese, la loro azienda fallirà e perderanno il posto. Dovrebbero perderlo, se ci fosse giustizia, anche i troppi svogliati e arroganti fannulloni messi a presidio non dell'arte e della cultura ma del «che vuole?» sfrontato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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