Stati Uniti declassati: incombe lo spettro recessione

L’agenzia di rating Standard & Poor’s ritira la "tripla A" La Casa Bianca contesta errori di calcolo Pechino alza la voce con Obama: deve darci garanzie. Nella notte conference call tra i ministri dell'Economia del G7

Stati Uniti declassati: incombe lo spettro recessione

Non era mai successo in 70 anni di onorato indebitamento pubblico: gli Usa perdono la «tripla A». L’agenzia di rating Standard & Poor’s, nella serata tra venerdì e sabato (notte in Europa), ha declassato i titoli di Stato americani dalla valutazione «AAA» a quella di secondo livello, «AA+». Un evento straordinario che si aggiunge alle difficoltà dei debiti sovrani europei, minacciando di nuovo la tenuta di titoli ed indici alla riapertura delle Borse di domani mattina. Anche per questo, dopo la terribile settimana dei mercati, i ministri finanziari del G7 hanno deciso di consultarsi: una conference call tra alcuni ministri finanziari del G7 si è tenuta nella notte. Il ministro del Tesoro Giulio Tremonti continua a mantenersi in stretto contatto con i colleghi europei e domattina sarà a Milano per tornare a Roma in serata.
Ma il taglio del rating Usa mette più che mai in primo piano quello che ormai è il tema dominante dell’economia: il rischio di una nuova recessione. Il cosiddetto «double dip», la ricaduta del prodotto interno lordo a poco tempo di distanza da quella del 2009. Il conto è presto fatto: secondo autorevoli banche d’affari, ogni 0,5% (50 punti) di rendimento in più sui titoli di Stato americani costa al Pil degli Usa uno 0,4% di crescita in meno, il tutto su base annua. Il declassamento da AAA in AA+ costa in media 100 miliardi di oneri aggiuntivi che il governo Usa deve pagare ai detentori di Treasury Bond, pari a un aggravio di rendimento calcolato nell’ordine dello 0,6-0,7%. Risultato: un rallentamento del Pil di almeno lo 0,5%. Un evento che va ad aggiungersi a una serie di fattori e numeri negativi che già hanno portato l’Economist a quantificare nel 50% il rischio che si verifichi una recessione douple dip negli Usa, nel 2012. Tanto che il settimanale britannico ha dedicato al tema l’ultima copertina. E una recessione in Usa si trasmette con certezza anche da questa parte dell’oceano.
L’allarme deriva dalla constatazione che la locomotiva americana, che per il 2011 vantava una previsione media di crescita del Pil intorno al 2,3%, da sei mesi mostra dinamiche del tutto diverse. Gli alti prezzi delle benzine; la difficoltà in certi tipi di offerta causate dal terremoto in Giappone; la lentezza nella ripresa di molte industrie a partire da quella dell’auto, sono tutti segnali di sofferenza. Puntualmente riscontrati in giugno nel calo dei consumi e in luglio nella diminuzione della fiducia dei consumatori e degli ordinativi industriali. Tanto che la crescita della produzione sembra si sia ridotta fino a un misero 0,8%, riflessa dal brusco calo dei tassi a lungo termine, calati di 100 punti (dal 3,6 al 2,6%) negli ultimi sei mesi: segnale tipico di raffreddamento dell’economia. Per tutti questi motivi, la sberla indotta dalla perdita della terza «A» potrebbe portare a un passo dallo stallo economico che precede la recessione.
Il double dip Usa non può che aggravare i problemi europei che già sono alle prese con un rallentamento della crescita, perfino nella loro locomotiva tedesca, come mostra anche in questo caso l’andamento decrescente dei tassi di interesse sui bund. In altri termini, come scrive l’economista Usa Paul Krugman, una situazione di questo tipo potrebbe portare a una paralisi senza precedenti, con l’America di Obama ingabbiata dalle divisioni politiche e l’Europa stretta nel cappio di una moneta unica adottata senza pensare a tutte le istituzioni finanziarie che sarebbero state necessarie per farla funzionare.
Per il resto sul terreno rimane lo psicodramma di una nazione che è ferita anche nel suo orgoglio. Quella tripla A che non c’è più e che mette gli Usa un gradino indietro a una dozzina di Paesi del mondo; e sullo stesso piano di Nuova Zelanda e Belgio. E con l’umiliazione della reprimenda arrivata da Pechino: i cinesi, primi detentori di titoli Usa, hanno rivendicato il diritto di pretendere dal governo Usa di risolvere i problemi strtturali sul debito pubblico.
L’amministrazione Obama ha reagito in maniera inusitata, accusando S&P di aver sbagliato i conti di 2mila miliardi di dollari. Ma l’agenzia ha replicato: non è una sanzione, tantomeno una punizione.

Ferma nella convinzione che servisse una riduzione del deficit di 4mila miliardi in 10 anni, e non di soli 2.400. Ritenendo dunque l’accordo politico raggiunto «meno efficace di quanto non sarebbe stato necessario a stabilizzare la dinamica del debito del Governo nel medio termine».

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