Sulla morte di Tobagi resta l’ombra della talpa al «Corriere»

Caro Granzotto, noi quegli anni li abbiamo vissuti sulla nostra pelle e sappiamo come sono andate le cose. Ma un giovane di oggi, di 20 o 30 anni, che avesse letto il Corriere del 20 maggio scorso in cui sono state dedicate due sacrosante pagine alla morte di Walter Tobagi, che ci ha capito? Insomma: chi ha ammazzato il povero Tobagi, colpevole semplicemente di fare il proprio dovere durante gli anni di piombo? A meno di un mio abbaglio dovuto all’età, non lo dicono i due commossi articoli di Dino Messina e Massimo Nava, ma non lo dicono nemmeno il cardinale Martini e il presidente Schifani. Nessuno fa nomi e sigle perché suppongono che tutti lo sappiano? Oppure c’è ancora il falso pudore che non fa dire le cose come stanno e non affibbia le loro atroci responsabilità agli assassini? Solo il direttore Feltri lo ha fatto, senza peli sulla lingua, senza paura del politicamente corretto. E poi meno male che c’è stata la lettera di Finetti sul Corriere del 29. È lo stesso di quanto accade sulle lapidi in ricordo dei morti ammazzati dal terrorismo sparse per l’Italia: indicazioni vaghe, generiche, imprecise. Gli assassini sono sempre ignoti. Eccetto che per la targa dalla stazione di Bologna. E infatti, cosa sarebbe accaduto se Walter Tobagi fosse caduto sotto il piombo dei Nar o di qualche «scheggia impazzita» della destra extraparlamentare? Invece venne freddato da terroristi dilettanti che volevano il lasciapassare per le Brigate Rosse, uno dei quali ebbe poi come testimone di nozze il presidente emerito Cossiga. Correggimi, ti prego, se sbaglio.
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È proprio come dici tu, caro de Turris: la pruderie del Corriere della Sera non ha giustificazioni, a meno di non ritornare col pensiero all’ipotesi - ai tempi sottoscritta dai più - che il delitto Tobagi sia stato programmato e organizzato a via Solferino e dintorni. Come gli riconosci, Vittorio Feltri è stato il solo a scrivere, sull’argomento, quel che andava scritto. Aggiungo solo, per la così detta sacrosanta completezza dell’informazione, che il gruppo terrorista («Brigata XXVII marzo», giorno in cui, era il 1980, i carabinieri fecero irruzione in un covo genovese delle Brigate rosse uccidendo nel conflitto a fuoco quattro brigatisti) che partecipò all’omicidio era composto da: Marco Barbone (nome di battaglia, Alberto) e Luigi Marano (Fabio) - i due che spararono i sei colpi di pistola, compreso quello di grazia -, Paolo Morandini (Alberto), Francesco Giordano (Cina), Daniele Laus (Gianni) e Manfredi De Stefano (Ippo). Quasi tutti di famiglia della buona borghesia milanese, la «società civile», insomma. Quanto all’ideologia della banda armata (altra inopinata lacuna nella commemorazione del Corriere), non si scappa: comunista. Lo erano dichiaratamente il boss Marco Barbone e i suoi soci. Che provenivano dalle Brigate Comuniste, Formazioni comuniste combattenti e Unità comuniste combattenti.
Sì, quegli anni noi li abbiamo vissuti sulla nostra pelle, caro de Turris. Scrive Feltri che il delitto Tobagi «come quasi tutti quelli dei comunisti combattenti è di una idiozia sconfinata».

E se dunque non dimentichiamo come andarono le cose, non dimentichiamo nemmeno l’imbecille solidarietà a quegli imbecilli assassini da parte di larga parte dei nostri colleghi (uno per tutti, Bocca, per il quale le Brigate rosse «fanno un curioso effetto, di favola per bambini scemi o insonnoliti; e quando i magistrati e gli ufficiali dei Cc e i prefetti cominciano a narrarla, mi viene come un’ondata di tenerezza, perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile, ma viene raccontata con tanta buona volontà che proprio non si sa come contraddirla»). Di quel moto di adesione, trascorsi trent’anni, evidentemente qualcosa resta ancora.
Paolo Granzotto

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