Un'onda più alta e Ouvea si trasformerebbe nel suo fondale. Finirebbe sotto. E, invece, resiste, come uno dei più esotici paradossi tropicali. Più che un'isola, questi 132 kmq sono un ponte che collega due lembi di paradiso puro a creare una mezzaluna esile di sabbia bianca che si allunga per 25 chilometri. Da una parte il verde delle palme, dall'altra il blu del mare: semplice, lineare, proprio come la disegnerebbe un bimbo, così distratto, però, da scordarsi quella metà di isola che è già tornata sott'acqua.
Ouvea galleggia leggera, al largo della Nuova Caledonia. Nonostante il nome scozzese, è territorio francese d'oltre mare, a due ore di volo da Sydney, nel macrocosmo dell'Oceania. Grande Terre è l'isola madre, l'isola dei Pini è già finita su qualche catalogo di agenzia, a differenza dei tre satelliti «della Lealtà», fra cui Ouvea, un patto con la bassa marea, dove può capitare che per richiamare l'attenzione si faccia volteggiare, con la migliore delle intenzioni, un machete, corredo quaggiù tanto necessario, quanto una borsa o un ombrello per noi. Lo sport nazionale è tuffarsi da quel ponte che lega i due lembi di sabbia, per sguazzare fra razze e squali di barriera che indugiano attraverso il pass che immette dal mare aperto alla placida laguna. I più arditi pescano, ma niente canna: qui si usa ancora una specie di fiocina a punta unica.
Un solo albergo per i rari, fortunati viaggiatori, un'unica strada punteggiata da qualche chiosco che apre se il gestore non ha altro da fare.
Dove l'isola si allarga appena, ecco la pista del mini aeroporto, mentre la grotta di Kong Houlop ricorda i giorni feroci del 1988 in cui l'isola si batté per lindipendenza dalla Francia. Finì malissimo, fra ostaggi e vittime. Da allora le onde del mare leniscono anche questa ferita.
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