Zaia: "Unicredit, ora servono sbarramenti azionari"

Il governatore del Veneto: "Politica fuori dal mercato, ma le fondazioni sono espressione e ricchezza della gente, non possono essere svuotate"

Con la vittoria della Lega alle regionali, il partito di Bos­si ha annunciato di volersi prendere le banche del Nord. Invece in Unicredit sono arri­vati i libici. Ora Luca Zaia, fre­sco governatore del Veneto (che in Unicredit ha grandi so­ci come CariVerona e Cassa­marca) dice al Giornale che a questo punto «la politica deve piantare i piedi». E spiega il perché.
I libici sono al 7%, gli emiri arabi al 5%: come la vede?
«Che la politica non si debba occupare dei fatti dell’impren­ditoria e del mercato è pacifi­co. Ma con fondazioni e ban­che c’è una situazione atipica. Dal ’93 l’elezione diretta di sin­daci e governatori li investe di un mandato popolare. E per ef­fetto di questo avviene la no­mina dei rappresentanti nelle fondazioni. Che dunque rap­presentano il popolo stesso. In questo senso è bene che la politica pianti i piedi. Voglio dire che prendo atto dell’in­gresso dei libici nel capitale di Unicredit. E che in un mercato globale è inevitabile. Ma ab­biamo un impegno con i citta­dini a garantire la governance delle società dove siamo pre­senti tramite gli enti. Dunque dobbiamo garantire che Uni­credit continui a essere una banca del territorio. Se no vie­ne meno l’oggetto sociale».
Ma le fondazioni sono poi così trasparenti? C’è un po’ di maretta sia a Verona sia a Treviso...
«Uscendo dal caso specifico di Verona, che non conosco, posso dire che quando si vedo­no statuti come quelli della “mia” fondazione, Cassamar­ca, dove c’è una sorta di au­toinvestitura napoleonica tra­mite cooptazioni, allora solle­vo il problema. Voglio dire che non esiste che un presidente di fondazione possa autono­minarsi e restare a vita. Penso che anche a livello governati­vo si debba dare un’occhiata a questi statuti. Fermo restando che ci sono bravissimi presi­denti di fondazioni che fanno un ottimo servizio alla comu­nità».
Torniamo ai libici: crede che siano andati troppo ol­tre?
«Non conosco i dettagli. Dal di fuori dico che se è un’opera­zione di diversificazione degli asset del fondo sovrano, ne prendo atto. Ma stento a crede­re che la partita si fermi qui. Di­co semplicemente che a que­sto punto bisogna ragionare su un altro sistema: mettere gli sbarramenti al possesso azionario. Spero che l’assem­blea dei soci, tramite le fonda­zioni, inizi a porre il proble­ma: se dobbiamo vedere scala­re le nostre società, e svuotare le nostre fondazioni, sarebbe deleterio».
C’è questo rischio?
«Se Unicredit viene scalato da investitori stranieri, le fonda­zioni finiscono all’angolo. Se portano a casa il capitale ac­cresciuto, tramite un’Opa per esempio, fanno un gran affa­re. Ma le scalate fatte in manie­ra furba non ci portano nien­te. Questo rischio è in mano al­­l’assemblea dei soci, e questi signori hanno una responsabi­lità elevatissima».
Profumo ha detto di non avere invitato lui i libici.
«Ho il massimo rispetto per Profumo che è un persona pre­parata. Se dice questo mi pre­occupo ancora di più. Vuol di­re che siamo di fronte a una scalata bella e buona».
Come si fa a trovare l’equili­brio tra il leg­ame col territo­rio e la gestione di una gran­de banca globale?
«L’equilibrio è il “glocal”: glo­balizzare il local. Io dico che le banche, se non fanno interna­zionalizzazione sono morte. Però abbiamo esempi, come il credito cooperativo o Veneto Banca che ha aperto all’Est, di come si possa tenere fisse e profonde le radici sul territo­rio. Penso al credito cooperati­vo delle popolari: 10 anni fa sembravano spacciate. Oggi, se l’economia sta in piedi nel mio Veneto, lo dobbiamo alla presenza di queste banche che hanno saputo aiutare i pic­coli imprenditori che Basilea a malapena sanno che è una città».
Veniamo ai 4.700 esuberi di Unicredit in Italia.
«Immagino che oggi Uniredit stia scontando una storia di fu­sioni non poco dolorosa, con grandi diseconomie. Certo che i lavoratori sono sempre il primo pensiero. C’è una fun­zione sociale che la banca è chiamata ad avere.

Non posso andare oltre perché non cono­sco i dettagli. Ma in Veneto sa­rò lì a monitorare. Il messag­gio che mando non è per l’in­gresso a gamba tesa nelle poli­tiche aziendali, ma per una grande oculatezza in quello che si fa nelle aziende».

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