Viviamo nell'era del risentimento

Siamo passati dall'ottimismo dei ruggenti anni Novanta del secolo scorso alla rabbia e al risentimento che oggi dominano la scena nell'intero Occidente

Viviamo nell'era del risentimento
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Paul Krugman (nella foto), premio Nobel per l'economia nel 2008, è una sorta di quintessenza dell'intellettuale liberal (La coscienza di un liberal, pubblicato in Italia da Laterza, è uno dei suoi libri più noti). Dal gennaio del 2000 era tra le firme del New York Times. Ieri ha dato l'addio al giornale passando in rassegna nel suo ultimo commento come è cambiato il mondo nel corso degli ultimi 25 anni. E la diagnosi è semplice e dolorosa: siamo passati dall'ottimismo dei ruggenti anni Novanta del secolo scorso alla rabbia e al risentimento che oggi dominano la scena nell'intero Occidente. Il giudizio non è solo la sintesi evidente del vicolo senza uscita in cui sembra essersi cacciata l'élite progressista americana, sconfitta ancora una volta dall'arcinemico Donald Trump. Né solo il bilancio di una generazione (Krugman ha 71 anni) che, per la prima volta nell'ultimo paio di secoli, non è stata in grado di garantire a figli e nipoti lo stesso livello di benessere ricevuto. La malattia descritta dal Premio Nobel interroga in realtà l'intera politica internazionale, da Bruxelles a Washington, e si traduce nella continua, progressiva e inarrestabile crisi delle élite dirigenti: nessuno «ha più fiducia che chi gestisce le cose sappia quello che fa, o che possa essere considerato onesto».

Il punto di partenza descritto da Krugman suona oggi come una perduta età dell'oro: quando ho iniziato a collaborare al New York Times, scrive, la politiche di Bill Clinton sembravano aver inaugurato un percorso di sostenuta e potenzialmente illimitata crescita economica. E in Europa la decisione di adottare l'euro appariva come la premessa necessaria per decenni di nuova prosperità.

Un sogno. Peccato che da lì in poi sia iniziata la discesa: prima la guerra in Irak del 2003, basata su presupposti fallaci, la presenza di armi chimiche nell'arsenale di Saddam Hussein, e foriera di conseguenze dannose: anni e anni di instabilità nel quadrante mediorientale. Poi è arrivata la crisi finanziaria del 2008: i cittadini americani hanno scoperto che l'intera costruzione su cui il Paese aveva costruito la crescita del benessere, era marcia, quasi frutto di una truffa, come gli ormai famigerati mutui subprime. All'Europa le cose non sono andate meglio. La crisi del debito sovrano ha messo in luce la fragilità del progetto europeo e l'apparente impotenza delle istituzioni costruite dagli anni Cinquanta in poi.

La politica e i suoi leader hanno fallito, ma anche le grandi corporation e il mondo dell'economia hanno dimostrato di non poter essere un riferimento. Wall Street non si è mai seriamente interrogata sulle proprie colpe nei disastri del passato, i «Masters of Universe», come li aveva chiamati Tom Wolfe nel «Falò delle Vanità», hanno continuato a fare i propri comodi, incuranti di tutto e di tutti. Il risultato: rabbia e risentimento, appunto. Ad essere arrabbiati «non sono solo i lavoratori che si sentono traditi dalle élite; negli Usa tra i più risentiti ci sono attualmente alcuni miliardari che non si sentono abbastanza ammirati e rispettati, gli stessi che molto probabilmente avranno probabilmente una grande influenza sull'amministrazione Trump in arrivo».

Adesso, conclude Krugman, è arrivata l'era della «cachistocrazia», il governo dei peggiori. Di coloro che, senza meriti e fingendo di non appartenere a un élite, vogliono sostituire quella vecchia per crearne una nuova. Ma il loro fallimento è in agguato e solo il loro fallimento potrà far tornare un nuova età dell'ottimismo.

Sono le ultime parole scritte dal Premio Nobel su quello che per anni

è stato il suo giornale. Un evidente riferimento al trauma della sinistra Usa per la vittoria di Trump e per il ruolo assunto da Elon Musk nel suo governo. Ma anche un avvertimento per il nuovo potere chiamato alla prova.

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