Un grande attore pronto a rischiare: Alain Delon è stato il ribelle più bello del mondo

Morto a 88 anni il leggendario interprete dei capolavori di Visconti e Antonioni

Un grande attore pronto a rischiare: Alain Delon è stato il ribelle più bello del mondo

È stato il «ribelle più bello del mondo». E l'attore più importante (insieme a Jean Gabin) dell'intera storia del cinema francese. Pertanto, ad Alain Delon, nato l'8 novembre 1935 e deceduto ieri, nell'Olimpo degli artisti spetta di diritto il gradino più in alto. L'insofferenza di Delon verso ogni gerarchia, come più volte ha ricordato, prende avvio dalla separazione familiare. I suoi genitori si lasciano, pochi anni dopo la sua nascita. E lui non trova più un punto fermo. Rifiuta la famiglia adottiva; rifiuta l'istituto religioso; rifiuta l'esercito. Nel 1953 si arruola a viene spedito in Indocina. Vi trascorre cinque anni, di cui uno passato in guardina. Tornato alla vita civile incontra casualmente il cinema. E scopre che l'universo della celluloide lo stava aspettando. La prima apparizione sul grande schermo la deve a Marc Allégret, che gli assegna un ruolo secondario in Godot (1957). Al terzo film, un melodramma in costume, L'amante pura (1958) di Pierre Gaspard-Huit, è già protagonista in divisa da ufficiale accanto a Romy Schneider. Due anni dopo arriva la consacrazione nazionale e mondiale. In Francia è protagonista di Delitto in pieno sole (1960) di René Clément, nel ruolo di Tom Ripley (il film è un adattamento del celebre racconto di Patricia Highsmith Il talento di mister Ripley). In Italia viene scritturato da Luchino Visconti in Rocco e i suoi fratelli (1960). Successivamente Visconti lo incastona come gemma preziosa in una corona reale, in Il Gattopardo (1963). Michelangelo Antonioni un anno prima lo ha voluto accanto a Monica Vitti in L'eclisse (1962). In soli tre anni Alain Delon recita nell'«opera crepuscolo» del neorealismo (Rocco e i suoi fratelli); nel più alto esempio di trasposizione cinematografica (Il Gattopardo, dalle pagine di Tomasi di Lampedusa alle immagini di Visconti); nel tassello conclusivo della «trilogia» antonioniana scaturita dall'«incomunicabilità esistenziale» (L'eclisse). Delon è perfetto nei poveri panni del meridionale intento a prendere a pugni la vita pur di farcela, nella Milano del «miracolo economico». È perfetto nell'abito da sera, con tanto di benda nera all'occhio per la ferita riportata, nella sontuosa dimora aristocratica della Sicilia risorgimentale. Ed è perfetto nell'abito nero attillato, oscillando tra gli interni in stile metafisico di De Chirico e gli esterni razionalisti dell'EUR.

A quel punto la carriera di Delon è in piena ascesa. Il grande «cinema d'autore» italiano è il biglietto da visita più prestigioso per raggiungere comodamente Hollywood. Ma l'attore sa che il suo spirito «ribelle», in quel sistema produttivo ferreo e schematico, finirebbe per trasformarsi in una palla al piede. Lo ha verificato in un dozzinale film d'evasione, Texas oltre il fiume (1966) di Michael Gordon. E gli è bastato. Decide così di restare in Francia. In patria deve scegliere se affiancare il cinema commerciale, oppure virare sul «film d'autore». La nouvelle vague di François Truffaut e Jean-Luc Godard dopo l'esplosione sta esaurendo la spinta propulsiva. Gode di grande considerazione mediatica. Ma al botteghino i risultati sono piuttosto magri. Delon sarebbe stato perfetto in alcuni capolavori d'autore: Fino all'ultimo respiro (1960) di Godard, Jules e Jim (1962) di Truffaut, Fuoco fatuo (1963) di Louis Malle. Ma ha perso il treno, impegnato in ben altro. Inoltre, l'astuta evoluzione dei «padrini» della nouvelle vague gli piace davvero poco. Dopo qualche giro a vuoto trova il giusto approdo: il regista Jean-Pierre Melville. Melville è impegnato a europeizzare il generi gangster e noir hollywoodiani. Al primo colpo Melville e Delon fanno centro: Frank Costello faccia d'angelo (1967). Il titolo originale è meno scoppiettante: Le samouraï. È un'«opera-cerniera», che disegna alla perfezione i contorni di un genere prettamente francese, il polar, ancora oggi imitato e prolungato all'infinito (in Italia, con stile diverso, prenderà il nome di «poliziottesco»). Delon è un criminale senza scrupoli, freddo, compassato, elegante. Potresti scambiarlo per un direttore di banca, che adora la musica classica, frequenta i musei, consuma i pasti nei ristoranti più esclusivi e può discettare, con proprietà di linguaggio, sull'esistenzialismo di Jean-Paul Sartre. Con Melville, maestro indiscusso del polar, Delon interpreterà altri due film: I senza nome (1970) e Notte sulla città (1972). La collaborazione con un altro eccellente regista francese, Jacques Deray, aggiunge alla carriera di Delon, già piena di luci, altre parti brillanti, assai diverse tra di loro. La piscina (1969), un dramma introspettivo; Borsalino (1970), spassosa ricostruzione nazional-popolare accanto a Delon c'è l'eterno rivale Jean-Paul Belmondo della malavita marsigliese anni Trenta; Flic Story (1975), estenuante caccia di un poliziotto ad uno spietato criminale, all'apparenza inoffensivo (un superbo Jean-Louis Trintignant); La gang del parigino (1977), pezzo meno pregiato del sodalizio tra il regista e l'attore. È vero che nella ancora lunga carriera Delon non ha più trovato un Visconti con cui recitare. Ma ha spaziato in largo e lungo, aggiungendo in ogni apparizione sempre qualcosa di pregevole. Come nel western Sole rosso (1971) di Terence Young, accanto a Charles Bronson e Ursula Andress. Delon è perfetto in La prima notte di quiete (1972) Valerio Zurlini, come in Tony Arzenta (1973) di Duccio Tessari (con il quale ha realizzato anche Zorro, nel 1975). Opere così diverse tra di loro è difficile trovarle. Eppure, Delon si muove agilmente nel film di ricerca (Zurlini) alla pari del film di genere (Tessari). Stesso discorso vale per il convenzionale Lo zingaro (1976) di José Giovanni e l'austero Mr. Klein (1977) di Joseph Losey.

Tra il 1980 e il 2008 Alain Delon è presente in diversi ruoli in oltre venti pellicole. C'è di tutto: da Un amore di Swann (1984) di Volker Schlöndorff a Il ritorno di Casanova (1992) di Édouard Niermans; da Per la pelle di un poliziotto (1981) diretto da se stesso a Uno dei due (1998) di Patrice Leconte. L'ultima sua apparizione è in Asterix alle Olimpiadi (2008). C'è stato anche un tentativo di riconciliazione con la nouvelle vague.

Godard l'ha voluto protagonista di Nouvelle vague (1990). Il vecchio maoista dietro la macchina da presa a dirigere l'amico e sostenitore di Jean-Marie Le Pen, impegnati entrambi a difendere la più nobile cultura cinematografica nazionale.

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