"Il Mulino" macina l'intellighenzia apocalittica che vede solo fascisti

La rivista si distanzia dalle derive dei partigiani (immaginari) di mestiere, da Saviano a Zerocalcare

"Il Mulino" macina l'intellighenzia apocalittica che vede solo fascisti

Il male oscuro della cultura di sinistra è chiuso in una bolla. È lì che si sono rintanati gli intellettuali e gli artisti che segnano il discorso pubblico di questi anni. Ci stanno comodi, con una serie di verità assolute riconosciute e codificate, convinti che lì dentro ci sia il bene e fuori il male, con parole d'ordine da ripetere ogni volta che si passa il confine e l'angoscia quasi religiosa sulle sorti del mondo. Non credono nell'avvenire, perché l'orizzonte è offuscato da una sorta di millenarismo che si estende al di là dell'ultimo sguardo. Disprezzano tutti i giorni il presente e vivono disperatamente dentro una dittatura che non riesce a materializzarsi come temono loro. Si aspettano il peggio e restano delusi perché tarda ad arrivare. È la sindrome del partigiano disilluso e alcuni di loro fanno quasi tenerezza. Non c'è dubbio, solo per fare un esempio, che fin da piccolo Michele Rech, in arte Zerocalcare, sognasse la resistenza. No, non come una avventura, non è per nulla cinico, e sa benissimo cosa significa combattere contro un regime. È più una missione etica, confusa e piena di sensi di colpa, di chi si sente circondato dall'oscurità fascista e qualche volta sembra agognarla per non far morire il bambino con il basco rosso. È un rivoluzionario senza teste da far cadere. È un partigiano che non va in montagna. È un gappista della domenica, che immagina il cuore nero della Meloni ma gli unici tafferugli che ha conosciuto sono con quella parodia di fascismo di CasaPound o Forza Nuova, comparse di uno spettacolo che sembra messo in scena da Corrado Guzzanti. È così che a destra e sinistra si finisce su Marte, confondendo incubi e desideri.

Zerocalcare è solo un personaggio di questo grande circo culturale. Non è sicuramente il più antipatico. La pietra d'angolo di ogni attore più o meno protagonista è che l'Italia stia scivolando verso una democrazia autoritaria. Gli indizi li scorgono a ogni angolo. Saviano, sempre per fare un esempio, ha dichiarato pubblicamente che presto il regime comincerà a arrestare gli intellettuali scomodi, prima di ogni altro lui, sottinteso. È chiaro che in questa attesa non c'è alcuna necessità di confrontarsi, o semplicemente parlare, con il resto della Repubblica. Non c'è alcun istinto o ragione che possa spostarti fuori dalla bolla. Non è un caso che i due esempi siano di autori di successo, popolari, famosi, ai vertici delle classifiche di vendita. È proprio per dire che questo discorso politico e esistenziale non sia affatto una nicchia. Ora questa visione non può non portare chi la considera reale non solo ai confini della resistenza armata, ma soprattutto, a una sospensione della cultura democratica della sinistra. Se dall'altra parte c'è un regime, le elezioni non possono che essere farlocche. Tutto è falso. Non puoi legittimare, riconoscere, comprometterti, dialogare, parlamentare, stringere la mano con l'altra parte. Il paradosso è che, sentendosi fuori dalla democrazia, perché ci sarebbe un regime, il sentimento democratico viene messo da parte. L'unica cultura di sinistra possibile è il ritorno a un massimalismo con venature apocalittiche. Pazienza se poi il regime non si avvera, il tratto culturale resta questo. È di fatto una metamorfosi, con un ritorno al Novecento più profondo, della sinistra italiana.

C'è ancora una resistenza a questa vocazione? Una traccia si trova nell'editoriale di Paolo Pombeni, storico prestigioso e direttore del trimestrale Il Mulino, presente proprio nell'ultimo numero, quello dedicato al «Paese più vecchio d'Europa». È la rivendicazione della storia culturale di una casa editrice e di una rivista che hanno svolto il compito di trasformare il grano in farina, di non ragionare solo di viscere o utopie, di indicare una strada diversa, lontana dagli slogan e dalla retorica, ma profondamente ancorata alla realtà. Non si tratta di un semplice esercizio accademico, né di una fuga verso l'alto. Al contrario, è stato un lavoro di scavo nella terra, nel tessuto vivo di una società in cambiamento. È quello che scrisse nel 1989 Nicola Matteucci, uno dei padri fondatori della rivista, ricordando come tutto è cominciato: «Non volevamo fondare partiti, lanciare messaggi, firmare manifesti, ma chiarire i termini storici, ideologici, tecnici in cui si pongono i problemi della comunità nazionale e internazionale». Questo era l'obiettivo, poi le cose vanno a volte in modo diverso. L'incontro tra la tradizione cattolica (non integralista), socialista (non massimalista), liberale (ma non laicista) viene travolto dagli anni di piombo. L'antifascismo, scrive Matteucci, diventa la credenziale per fare carriera. Nella sinistra italiana si affermano intellettuali senza masse, imbevuti di una cultura rivoluzionaria fuori dalla realtà.

È da qui che viene la bolla degli intellettuali di sinistra di questa stagione. È allo stesso tempo la sconfitta dei «mugnai» e la loro ostinata resistenza alla finzione di Zerocalcare e dei suoi compagni partigiani immaginari.

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