Salvatores: "L'Oscar non lo volevo in casa. Abatantuono? Quello che non sarò mai"

Intervista a Gabriele Salvatores, al cinema con "Napoli-New York". Dalla scuola dai gesuiti all'amore per la fuga. Ecco ciò che invidia ai suoi attori e le sue personali strategie di sopravvivenza

Salvatores: "L'Oscar non lo volevo in casa. Abatantuono? Quello che non sarò mai"

"Napoli-New York", l’ultimo film di Gabriele Salvatores, è in sala da un mese e continua a registrare ottimi incassi. Lo script di partenza risale alla seconda metà degli anni Quaranta e reca le prestigiose firme di Federico Fellini, all’epoca non ancora regista, e Tullio Pinelli. Ambientato nell'immediato dopoguerra, tra le macerie di una Napoli devastata dal recente confitto mondiale, il film vede al centro della scena due giovani scugnizzi, Carmine e Celestina, che si ritrovano imbarcati clandestinamente su una nave diretta a New York. Là cercheranno un futuro migliore, anche con l’aiuto del commissario di bordo, interpretato da Pierfrancesco Favino. Ne abbiamo parlato col regista.

Il suo è un film che affronta questioni difficili e ancora attuali con godibile levità. In quanto feel-good movie atto a regalare speranza, non stonerà di certo in mezzo alla proposta cinematografica natalizia.
"Effettivamente a Natale al cinema c’è un pubblico più familiare e il mio film può essere capito e condiviso un po’ a tutte le età. Sono contento che molte sale, anche davvero importanti, vedendo il risultato al botteghino abbiano deciso di prolungare la programmazione di 'Napoli–New York' fino al primo gennaio; quindi sì, in qualche modo faremo parte dell’offerta natalizia anche se la pellicola non è stata pensata per quello".

Il 18 Dicembre è stata la giornata internazionale dell'immigrazione, un tema cardine di “Napoli-New York”. Quanto è importante per lei questo argomento?
"Lo è molto. Se ho accettato di misurarmi con il soggetto di Fellini e Pinelli è perché, già 75 anni fa, parlava proprio di quello. Il mio film però affronta l’immigrazione in modo emotivo, non ideologico; vuole ricordarci che una volta i migranti eravamo noi. Quasi 30 milioni di italiani sono emigrati tra Ottocento e Novecento. Ciò detto, per me 'Napoli-New York' rimane un film sulla storia di due bambini che vogliono cambiare vita, hanno la forza, il coraggio e la cazzimma (come si dice a Napoli) di sognare una nuova esistenza e andare a cercarsela".

Il suo “Mediterraneo” fu premiato dall’Academy come miglior film straniero nel 1992. Come si sopravvive all’Oscar?
"Basta non prenderlo troppo sul serio. A me ha aiutato il fatto che quell’anno in concorso ci fosse 'Lanterne Rosse', film che io reputo ancora oggi superiore al mio; quindi ho pensato da subito che tutto nella vita sia molto soggettivo. L'Oscar all'inizio mi ha dato sicuramente qualche pensiero; il problema è che tu sei uguale al giorno prima di vincerlo, non è che hai imparato a fare il cinema all'improvviso solo perché ti hanno dato l'Oscar; però ovviamente il pubblico si aspetta da te molto di più perché adesso sei un regista che ha conquistato quel premio. Io non l'ho voluto vedere in casa per tanto tempo, poi ci ho fatto pace ma ho anche iniziato, di proposito, a fare film molto diversi".

A quali tra i suoi film resta più affezionato?
"Sicuramente a quelli che hanno cambiato la mia vita, tipo 'Marrakech Express'. Però se ci riferiamo a quali mi piacciono e soddisfano di più, direi 'Io non ho paura', 'Educazione siberiana' e 'Nirvana'".

Diego Abatantuono, Paolo Rossi e Fabrizio Bentivoglio sono alcuni suoi amici e colleghi, molto diversi tra loro, con cui ha percorso un significativo pezzo di strada. Qual è una loro qualità che vorrebbe possedere?
"Di Diego apprezzo tantissimo l’esuberanza con cui cerca di superare le ansie (sì, anche lui ne ha); la sua energia vitale lo rende divertente e in grado di riunire attorno a sé tante persone, scongiurando quindi il suo terrore della solitudine. Di Paolo invidio la capacità totale di rischiare e di fregarsene dell’esito; non ha paura e sa cogliere l’aspetto ironico in ogni circostanza. Fabrizio invece è molto simile a me, non a caso è stato per tanto tempo il mio alter ego cinematografico. Diciamo che mentre Diego è quello che io non sarei capace di essere, Fabrizio invece mi ricorda, in quanto persona più riflessiva".

Le musiche di molti suoi film sono firmate da Ezio Bosso, scomparso nel 2020. Cosa le ha lasciato come artista e come uomo?
"Mi ha lasciato tutta la sua musica e il ricordo della sua amicizia. Era molto affezionato a me e io a lui. Non era un personaggio facile, in generale, ma con me era tutto molto semplice. Mi ha insegnato che bisogna sempre andare avanti con quel che si ha. Una persona può ritrovarsi con una mobilità ridotta o una velocità di pensiero compromessa, come lui nell’ultimo periodo, eppure realizzare comunque cose bellissime. Mi ha lasciato la voglia di continuare a lottare e tenere duro nei momenti difficili".

Ha ancora l’ansia come compagna di vita?
"Sì; tace solo mentre lavoro, quando cioè ho la possibilità di controllare tutto. Mi spaventa l’imprevedibilità connaturata alla vita. In accezione positiva però la vivo come ansia di cambiamento, ansia di fare".

Il cambiamento ricorre quasi sempre nella sua filmografia.
"Ne è il leitmotiv. In quasi tutti i film che ho fatto ci sono personaggi costretti ad andare altrove, a uscire dalla loro comfort-zone. Quello che cerco sempre di raccontare, anche con questo ultimo lavoro, è l’importanza di affrontare circostanze nuove, cui magari siamo costretti, sapendo che possono consentirci di migliorare le nostre vite. Ecco perché non bisogna temere. In questo senso va anche l’idea di fuga cucita addosso a vari miei titoli; ci tengo a dire che mai l’ho intesa come mero disimpegno bensì come vitalistica strategia di sopravvivenza. Bisogna affidarsi al vento a volte".

A proposito di affidarsi, lei ha fede?
"Ho fatto le scuole dai gesuiti fino ai tredici anni, quindi ho una formazione cristiana. In questo momento della mia vita mi definisco agnostico, anche se la dimensione spirituale per me è importante. L’idea che un essere superiore ci sia è affascinante. In generale io penso che Dio sia nella natura, in ognuno di noi e nella spinta vitale che manda avanti il mondo nonostante noi facciamo di tutto per rovinarlo; ecco, forse questo è Dio".

E riguardo all’arte? A cosa ha capito che serva?
"All’artista serve a esprimere i propri sogni, le proprie paure e trasformarle in un'opera che possa essere momento di condivisione con altri. Chi crea ha il dovere di aprire delle strade nuove, anche a costo di andare a sbattere contro un muro.

Deve stare sempre un passo davanti al pubblico, come diceva Brecht; altrimenti si rimane parte di quello, spettatori, e va benissimo. Quanto all’impatto sul mondo, credo che l'arte sia quello che ci salverà, insieme al riaprire lo sguardo sugli altri; solo così ci si tiene lontano dalla diffidenza e dall'odio che dilagano in questi anni".

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