Non per soldi ma per amore, per una sorta di passione filo-russa dettata dall'ideologia, magari in nome della pace. A muovere i due imprenditori di Monza finiti sotto accusa dal Ros dei carabinieri per i loro contatti con gli 007 di Putin attivi sul territorio italiano non sono state le poche migliaia di euro in criptovalute viaggiate sui loro conti ma la simpatia per la causa di Mosca, che li ha spinti a mettersi al servizio dell'Fsb per una lunga serie di attività.
Ora i due sono indagati per il reato di «corruzione del cittadino da parte dello straniero», aggravata secondo la Procura della Repubblica dalla finalità di terrorismo e eversione. Per i pm milanesi, in questi tempi di guerra, vendersi a Putin vuol dire vendersi a un terrorista.
L'inchiesta viene alla luce all'improvviso, e per motivi precisi. Nei mesi scorsi i due si stavano preparando per consegnare nuovo materiale delicato ai loro interlocutori russi. Per impedire la consegna i carabinieri hanno dovuto, d'intesa con la Procura, fare scattare le perquisizioni a carico degli indagati, mettendoli così al corrente dell'esistenza dell'inchiesta. A questo punto proseguire le indagini era impossibile, così il pm Alessandro Gobbis ha fatto partire l'avviso di conclusione dell'inchiesta. Destinatari, i due imprenditori - un 34enne e un sessantenne - in concorso con le spie di Mosca.
Chi ci fosse dall'altra parte, che volto e nome avessero gli emissari dell'Fsb, è rimato nascosto nelle pieghe di Telegram, il canale con cui italiani e russi comunicavano. Ma che si trattasse di operativi dei «servizi» di Putin emerge chiaramente dalle conversazioni intercettate con i trojan dei Ros. E altrettanto chiaramente emerge che la spinta dei due non sono i soldi, negli atti si parla «un atteggiamento contro l'Ucraina e contro la politica occidentale» nel conflitto in corso. Agganciati sul darkweb, i due - che sono titolari di un'azienda di tecnologia - hanno messo a disposizione dei russi «documentazione classificata, fotografie di installazioni militari e informazioni su tecnici specializzati nel campo dei droni e della sicurezza elettronica».
Ai loro amici italiani, gli 007 di Mosca hanno chiesto anche di effettuare la mappatura delle telecamere di sorveglianza attive sia a Milano che a Roma, in modo da poter individuare le zone non coperte dalle riprese. È una richiesta significativa, perché sembra preparare alla realizzazioni di operazioni «coperte» sul territorio italiano. Così come l'allestimento di una rete di taxi in grado di monitorare il territorio attraverso le dash cam proposte gratis dalla ditta dei due filo-russi.
Che l'Italia sia terreno di caccia privilegiato per l'intelligence russa, d'altronde, non lo si scopre ora: proprio ieri è diventata definitiva la condanna a 26 anni di carcere di Walter Biot, l'ufficiale della Marina militare scoperto a consegnare a un «diplomatico» russo una penna usb con materiale segreto della Nato; a Milano era operativo Artem Uss, l'imprenditore russo legato all'intelligence, scappato l'anno scorso dopo essere stato incautamente scarcerato.
Il nuovo caso sembra aprire un nuovo fronte, non si parla solo di caccia a documenti e materiale tecnico, ma anche della creazione di una rete operativa sul terreno, in grado di muoversi, di utilizzare «case sicure».
Nei telefoni e nei computer sequestrati dai Ros ai due indagati la Procura punta a individuare con maggiore precisione quali fossero gli obiettivi degli 007 russi su Milano e su Roma. E di capire meglio il movente dei due italiani: che per le loro soffiate incassavano mance dai mille ai diecimila euro. Poco, per rischiare dieci anni di galera.
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