
Indipendenza di Taiwan uguale guerra. Non un concetto nuovissimo quello espresso ieri da Xi Jinping, ma stavolta c'era un messaggio in più da inviare, o meglio da ribadire, a Donald Trump: la Cina è pronta non solo alla guerra commerciale che gli Stati Uniti le stanno dichiarando, ma anche a quella vera, fatta con le navi e gli aerei militari. E ieri, tra navi e aerei, i cinesi ne hanno schierati un centinaio intorno all'«isola ribelle», come sono soliti chiamare la piccola Cina nazionalista filoccidentale, armata fino ai denti soprattutto dagli americani.
Un «severo avvertimento ai separatisti», hanno fatto sapere da Pechino, che dimostrerebbe la «preparazione al combattimento» delle forze cinesi. La grande portaerei Shandong, in particolare, si è avvicinata come mai prima alle coste taiwanesi, mentre i difensori dell'isola, subito mobilitati anch'essi con navi e aerei da guerra, si portavano al limite delle acque territoriali, fissato a 24 miglia nautiche. Un messaggio reso necessario, nella logica del regime comunista, dalle recenti dichiarazioni del capo del Pentagono Pete Hegseth, che nei giorni scorsi, in visita in Giappone e nelle Filippine, aveva definito indispensabile il ruolo dei due Paesi alleati degli Stati Uniti nel duplice impegno a contenere l'espansionismo cinese e a difendere Taiwan.
Troppo per Xi, che in vista di un probabile ma tuttora ipotetico incontro con Donald Trump, ha fatto sapere a modo suo che con la Casa Bianca si potrà discutere di molti temi anche delicati, ma non su Taiwan, che Pechino pretende sia parte integrante della Repubblica Popolare, nonostante non lo sia mai stata per un solo minuto nella sua storia lunga ormai oltre 75 anni. È interessante notare che questo ennesimo innalzamento del livello della pressione militare cinese su Taiwan è stato preceduto dalla visita al Cremlino del ministro cinese degli Esteri Wang Yi, durante la quale Putin ha invitato Xi Jinping a Mosca per il mese prossimo. Ma anche da un bombardamento retorico straordinariamente sostenuto da entrambe le sponde dello stretto (largo appena cento chilometri) che separa le due Cine. Il presidente filo indipendentista Lai Ching-te, che si era spinto a definire Pechino «forza straniera ostile», è stato bollato dalla propaganda comunista come «dittatore mascherato e parassita avvelenatore di Taiwan», e presentato in malevole grafiche come un tumore verde (il colore che identifica il partito del presidente) che si estende dalla regione meridionale di Tainan di cui era stato sindaco fino alla parte nord dell'isola, non casualmente dipinta con il colore blu del partito Kuomintang che invece è su posizioni dialoganti e di compromesso verso Pechino.
Chiara l'intenzione cinese di interferire nella politica interna taiwanese, dal momento che Lai non dispone di una propria maggioranza parlamentare.
A queste operazioni, che si affiancano subdolamente a quelle militari vere e proprie, si aggiunge un incremento delle azioni di spionaggio all'interno delle forze armate dell'isola, tanto che il presidente intende proporre il ritorno di quei tribunali militari, aboliti da decenni, che sono stati un sinistro simbolo dell'autocrazia che aveva governato Taiwan ai tempi duri di Chiang Kai Shek, poi superata da tempi nuovi in cui Taipei è divenuta un esempio di società aperta e democratica nell'Estremo Oriente. Un esempio che fa paura a Xi Jinping esattamente come quello ucraino la fa a Putin.
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