La vera difesa delle toghe: quella corporativa

Puoi cambiare il sacerdozio, le regole delle tonache con i concilii vaticani, ma non i dettami che riguardano le toghe con le riforme costituzionali

La vera difesa delle toghe: quella corporativa
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Neppure due giorni fa la prima presidente della Cassazione, Margherita Cassano, aveva predicato «rispetto reciproco fra le varie istituzioni dello Stato improntato a razionalità, pacatezza ed equilibrio». E invece ieri i magistrati hanno inscenato una protesta nelle varie Corti d'Appello del Paese degna di quelle dei metalmeccanici sui salari e l'orario di lavoro, uscendo dalle aule e agitando la Costituzione contro i rappresentanti dei governo. Solo che appunto si trattava di toghe che contestavano non solo all'esecutivo ma al Parlamento il diritto-dovere di legiferare, di decidere sulla separazione tra le carriere di giudici e Pm. Un'invasione nelle prerogative di un altro Potere dello Stato per difendere i privilegi della corporazione. Un'altra prova, un'altra testimonianza se ce ne fosse stato bisogno per convincersi che quella riforma è giusta e va fatta.

Il dato più sorprendente della protesta è che si rifugia dietro lo slogan che la Costituzione sia intangibile, immodificabile non nei principi della prima parte che nessuno mette in discussione, ma nella seconda che riguarda l'organizzazione e il funzionamento delle istituzioni. Eppure di interventi in passato ce ne sono stati tanti per introdurre nella Carta temi, spesso trattati in maniera vaga, come l'ambiente, lo sport o le vittime di reato. Oppure sono stati cancellati istituti che hanno privato altri Poteri di prerogative come l'immunità parlamentare pensata dai nostri padri costituenti per garantire l'autonomia e l'indipendenza delle Camere. In quei casi nessuno ha detto niente. Anzi, solo applausi.

Invece, quando si parla di giustizia e di magistrati le riforme sono tabù, ogni progetto è incostituzionale sia che a Palazzo Chigi ci sia Berlusconi, Renzi o la Meloni. Ogni articolo, ogni comma, ogni paragrafo che li riguardi è un totem indelebile scritto con lettere di fuoco sulle tavole di Mosè. E poco importa se l'indice di fiducia dell'opinione pubblica nella giustizia italiana sia precipitato, se il principio di «non colpevolezza» sia stato dimenticato, se la maggioranza dei cittadini (il 54% fonte La Repubblica) sia del parere che la nostra magistratura sia politicizzata: la corporazione, pardon la casta, non accetta di essere riformata. Puoi cambiare il sacerdozio, le regole delle tonache con i concilii vaticani, ma non i dettami che riguardano le toghe con le riforme costituzionali.

Si tira in ballo la Carta, si inneggia a grandi principi come l'indipendenza della magistratura, ma gratta grata ti accorgi che dietro all'epica narrazione c'è solo la difesa dei privilegi e del potere che sono cresciuti a dismisura nei quarant'anni in cui le toghe hanno fatto il bello e il cattivo tempo.

Per cui anche l'idea sacrosanta presente negli ordinamenti di democrazie più antiche della nostra, in Paesi in cui lo stato diritto è una fede, cioè la separazione tra il ruolo del giudice da quello dell'accusa, è considerata un'aggressione, un progetto eversivo per ridurre l'autonomia della magistratura. Una riforma che punta a garantire la terzietà del giudice è accolta alla stregua di una bestemmia. Ma tutto si può dire, meno che non ce ne sia bisogno per salvaguardare la stessa professionalità dei giudici e dei Pm. Lo dico per esperienza personale.

Basta leggere la biografia del giudice che mi ha comminato una condanna che poi il Senato della Repubblica ha ritenuto persecutoria: ha fatto il pm in diverse procure; poi il deputato, il senatore e l'esponente di governo (il sottosegretario); quindi il giudice di Tribunale a Roma; e poi di nuovo sul versante dell'accusa, procuratore generale a Bari. Insomma, quattro carriere in una, in un vortice di ruoli, di competenze, di incarichi diversi che qualcuno può addirittura giudicare incompatibili. Meraviglie del Belpaese.

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