Sono passati cent'anni esatti, ma ancora adesso quando qualcuno in val Brembana ne ha proprio piene le scatole minaccia di «fare come Pianetti». Cioè dare libero sfogo alle propria ira, riparando una volta per tutte, e in maniera sanguinosa, i torti subiti. A dimostrazione di quanto le gesta del «vendicatore» di Camerata Cornello siano rimaste ben impresse nell'immaginario collettivo. Un vera esplosione di follia del resto, iniziata il mattino del 13 luglio quando Simone Pianetti uscì di casa con un fucile e una lista di una quarantina di nomi. Un raid concluso nel giro di poche ore con ben sette morti. Dopo di che, l'uomo si diede alla macchia sui monti e di lui non si ebbero più notizie, nonostante centinaia di carabinieri e militari lo abbiano cercato per giorni e il prefetto di Bergamo avesse messo una taglia di 5mila lire. Molte le ipotesi sulla sua fine, la più attendibile che sia riparato in America da cui sarebbe tornato ormai ottuagenario per morire a casa del figlio.
Pianetti, nato il 7 febbraio nel 1858, ebbe fin da giovane fama di persona con un senso della giustizia pari solo al suo carattere sanguigno. Si dice abbia addirittura sparato al padre, mancandolo, per una questione di eredità. Poco più che ventenne decise di lasciare Camerata, paesino sopra San Pellegrino dov'era nato e cresciuto, per cercare fortuna «alle Americhe». A New York fondò con un amico una piccola ditta di importazione di frutta e vino dall'Italia ma presto si trovò a che fare con la Mano Nera, il nome di Cosa Nostra negli Usa. I mafiosi gli chiesero il pizzo, lui rifiutò e corse a denunciare tutto alla polizia. Vennero effettuati alcuni arresti, ma la vendetta dei criminali non si fece attendere: il socio venne assassinato e lui dovette rientrare precipitosamente in Italia.
Tornato a Camerata nel 1893 si sposò, ebbe una mezza dozzina di figli e aprì un'osteria dove si poteva anche ballare. Inizialmente gli affari andarono a gonfie vele, poi i maggiorenti della valle reagirono indignati allo scandalo, fecero terra bruciata attorno alla taverna. Pianetti non si perse d'animo, si trasferì nel vicino San Giovanni Bianco, dove aprì un mulino elettrico. Ma anche qui, dopo un primo fortunato periodo, la sorte gli girò le spalle. Vuoi in virtù della nomea di peccatore per la taverna con ballo, vuoi la sua fama di anarchico anticlericale, in breve si disse che il suo mulino portava maledizione e malattie: la famosa «farina del diavolo».
Ridotto in miseria, la collera di Pianetti esplose devastante. La mattina del 13 luglio alle 5.30 uscì armato di fucile con in tasca una lista con una quarantina di nomi: tutti i suoi nemici. Il primo a cadere sotto i suoi colpi fu il medico condotto, Domenico Morali, colpevole di non avergli curato bene il figlio Aristide, causandone la morte. Poi andò in municipio a Camerata dove, non trovando il sindaco, si vendicò sul segretario comunale Abramo Giudici, autore delle ordinanze di chiusura dell'osteria, e la figlia Valeria, che l'aveva dileggiato. Stessa sorte toccò al calzolaio Giovanni Ghilardi, suo avversario politico, raggiunto nella sua abitazione. Sul sagrato della chiesa sparò al parroco don Camillo Filippi, che gli aveva fatto guerra per la balera, e al messo comunale Giovanni Giupponi, perché si era opposto a una richiesta di derivazione dell'acqua di una fontana. Pianetti si dileguò nel bosco per riapparire poco dopo alla contrada Pianca, dove cercò senza esito l'oste Pietro Bottani. Poi salì nella frazione di Cantalto, dove concluse la sua catena di delitti con Caterina Milesi, perché aveva sparlato di lui. Quindi sparì tra i boschi.
In breve fu organizzata una caccia all'uomo a cui parteciparono una quarantina di carabinieri arrivati da Bergamo, senza riuscire a scovarlo, né servì mettere una taglia di mille lire sulla sua testa. In breve il numero dei «cacciatori» salì a 300 e la taglia a 5mila lire. Ma ancora una volta senza esito. Pianetti avrebbe trovato ospitalità e protezione tra montanari e carbonari, che vedevano in lui il «vendicatore» della povera gente. Nel frattempo la sua vicenda era giunta alla stampa. Qualche giornale, come il conservatore Eco di Bergamo, lo dipinse come una belva sanguinaria, altri, come Il Secolo, vittima dell'«oppressione clericale e dei feudatari della valle». Il 31 luglio le autorità acconsentirono al figlio di andarlo a cercare. Nino Pianetti incontrò il padre, gli consegnò alcune lettere della moglie e degli amici che lo invitavano a costituirsi. L'uomo dopo aver pianto a lungo, scrisse una lettera alla moglie e la consegnò al figlio giurando: «Non mi troveranno mai, né vivo, né morto».
Il fosco periodo che incombeva sull'Europa, precipitata in una guerra che presto avrebbe coinvolto anche l'Italia, fece ben presto dimenticare le sorti di Pianetti che comunque il 25 maggio 1915 fu condannato all'ergastolo. Il resto è solo leggenda. Una prima ipotesi lo vede fuggire verso la Valtellina e da lì nel cantone Grigioni in territorio svizzero. Qualche anno dopo invece una donna di ritorno dalle Americhe giurò di averlo incontrato e di aver saputo la vera storia della sua fuga. Dopo i tragici fatti, sarebbe arrivato alla questura di Bergamo dove avrebbe trovato falsi documenti per l'espatrio. Le autorità infatti avrebbero temuto la reazione, alla notizia della sua cattura, degli strati più umili della popolazione che vedevano in lui una vittima di ingiustizie e soprusi. Tanto che sui muri della zona erano apparse scritte come «W Pianetti, ce ne vorrebbe uno in ogni paese».
Per trent'anni nessuno ebbe più sue notizie fino a quando nel 1943, alcuni abitanti della zona giurarono di averlo riconosciuto in un anziano, Pianetti avrebbe avuto allora 85 anni, incontrato non lontano da Camerata. Altra versione vuole che Nino Pianetti, nel frattempo trasferitosi a Milano, abbia confidato a conoscenti che il padre fosse effettivamente emigrato nelle Americhe. Sarebbe poi tornare sotto falsa identità in Italia, per trasferirsi a casa sua dove avrebbe trascorso gli ultimi anni prima di spegnersi serenamente nel 1952, ormai quasi centenario.
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