L'ironia di Trilussa: quando l'antipolitica finisce in commedia

Michele Placido prepara una miniserie per Raiuno sul poeta. Pungente senza essere mai schierato, ironizzò sugli eterni vizi e conformismi dell'Italia

Guadagna casa sua col passo sgangherato dell'uomo troppo alto, le ghette color crema s'addicono al panciotto marrone, anche se di quattrini neanche l'ombra. Medita qualche sonetto dei suoi, nell'oltraggiosa ironia del romanesco che doma in versi: ecco Trilussa, alias Michele Placido fresco di nozze contestate. Al Portico d'Ottavia, nel cuore del quartiere ebraico e davanti a un portone riattato in cartapesta, si gira qualche scena di Trilussa. Storia d'amore e di poesia, miniserie tv prodotta dalla Titanus di Guido Lombardo, diretta da Lodovico Gasparini, con Monica Guerritore che fa Rosa, la serva ciociara che in silenzio amò «Tri», come gli amici chiamavano «il Mida dell'endecasillabo» (così Leonardo Sciascia) e in onda su Raiuno nel prossimo inverno, con musiche di Stelvio Cipriani.
È ora di sdoganare i cosiddetti poeti dialettali: dopo i Sonetti erotici e meditativi del Belli, pubblicati da Adelphi, cono di luce su Carlo Alberto Salustri (Roma 1871-1950), vero nome del grande poeta italiano in dialetto romanesco, rievocato in una fiction di lusso. «Ho accettato la parte perché Trilussa mi somiglia: gran tombeur des femmes, ma con una sua morale. Le gigolettes gli piacevano, senza moralismi. Quanto al mio matrimonio, ho trovato più commenti moralistici e bacchettoni a sinistra che a destra: manco l'Osservatore Romano», spiega Placido, neanche troppo colpito dagli indignados, che gli rimproverano sponsali burini con Federica Vincenti: lui 66, lei 29. «Di Trilussa amo la leggerezza e la malinconia con cui affrontò la vita. Lo sento caro e vicino. Anche perché qui c'è molto della commedia all'italiana», dice l'attore, che non ha dovuto imbiancarsi i capelli per impersonare il poeta perennemente in bolletta e indebitato con l'usuraio Isacco Spizzichino («E Isacco che m'impresta li quatrini a l'ottanta per cento e er pegno in mano?/ Nun te lo nego: è er re de li strozzini»).
Focalizzata sull'anno 1937, con le leggi razziali in agguato l'anno dopo, la fiction farà emergere moderne consonanze, perché «Tri» - amico di D'Annunzio, icona per la giovane Elsa Morante e favolista da caffè anche nella Berlino di fine Ottocento, insieme al trasformista Fregoli - verso la fine della vita si vedrà piombare addosso lo stesso fisco implacabile di oggi, con sequestro di un armonium, l'unica cosa di valore trovata dai pignoratori. Poi c'è lei, Rosa, «donna del popolo, che risparmia e fa un rotolino di banconote per riscattare i beni di Trilussa. Senza avere nulla in cambio», spiega Monica Guerritore, che torna sul piccolo schermo dopo lunga assenza. Non è, però, l'unica donna del poeta, visto che Trilussa farà da Pigmalione a Giselda (Valentina Corti), trasformando una ragazzetta di Trastevere nella diva Leda Gys: nient'altro (e per davvero) che la nonna del produttore Lombardo. Divi in famiglia, dunque, per un biopic che prevede Placido/Trilussa intento a scandire, in solitario passeggio, endecasillabi impeccabili e quelle «Favole romanesche» che lo resero noto, mentre trovava affinità tra «ommini e bestie». Un assaggio l'ha dato ieri l'ex-celerino che ha studiato Arte Drammatica, leggendo un sonetto politico di «Tri» dall'edizione de I Meridiani stretta in mano. «È difficile avere in bocca questi versi romaneschi, ma mi sono detto: “Michè, so cinquant'anni che stai a Roma!”. Trilussa si è esposto poeticamente, non politicamente, a differenza di Cesare Pavese. Togliatti lo volle incontrare, ma lui, un non-fascista amato dal Papa, fu al disopra dei giochi». Paladino della libertà senza retorica per tutto il ventennio, nell'Italia liberata fu tirato per la giacchetta dai comunisti, che l'avrebbero voluto collaboratore. Scettico, disilluso, Trilussa piuttosto evitò le prese di posizione: per tale suo distacco il compagno Mario Alicata si vendicò, scrivendo nel '46 un pezzo ambiguo su Rinascita, intitolato «Il silenzio di Trilussa». Eppure, «Tri» aveva firmato un manifesto degli intellettuali per la pace, con la colomba di Picasso come simbolo, senza preoccuparsi troppo del suo colore. «Nun ve fidate/Povere colombe/de chi ve sfrutta a nome de la Pace».

Per eccesso di fiducia, in sé e negli altri, è morto povero in canna, subito dopo che Luigi Einaudi lo nominò senatore a vita. «Semo ricchi!», disse a Rosa. E crollò sulla sedia: lo stipendio mensile di 65.000 lire non gli serviva più.

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