Ammaniti, un romanzo da funzionario editoriale

Scrittura ipnotica, personaggi sospesi nel vuoto: i soliti trucchi del mestiere non reggono più

«Riuscivano a raccontare la vita di merda della gente comune come nessun altro»: sono Robert De Niro ed Al Pacino a raccogliere la stima di Rino Zena, il padre neonazista al centro dell’ultimo romanzo di Niccolò Ammaniti, ma è probabile che dietro la lode si celi l’ambizione dell’autore. Tra gli obiettivi di Come Dio comanda (Mondadori, pagg. 495, euro 19) vi è infatti senz’altro quello di alzare il sipario sulle giornate di coloro che una volta si chiamavano gli «spostati» e che oggi entrano ed escono dallo schedario dei drop out.
A cinque anni di distanza dal successo di Io non ho paura, diventato un film diretto da Gabriele Salvatores, Come Dio comanda narra il tentativo di scassinare un bancomat messo in opera da tre cittadini del Nord-Est tagliati fuori dal più recente dei boom economici e ridottisi a vivere di espedienti. La mente del gruppo, si fa per dire, è Danilo Aprea. Alle spalle ha un matrimonio andato a rotoli dopo che la figlia di tre anni è morta, soffocata dal tappo dello shampoo. Desidera solo una cosa: riconquistare l’ex moglie, che continua a vedere di tanto in tanto. Se il colpo riuscisse, riprendersela sarebbe un gioco da ragazzi. Il secondo membro della banda non promette di essere più affidabile del capo: è Quattro Formaggi, dalla predilezione per l’omonimo tipo di pizza. È un matto padano con la mania del presepe e il cervello andato in tilt da quando un giorno, raggiunta la chiusa di una centrale, ha toccato con una canna da pesca di carbonio i fili dell’alta tensione. La conducibilità elettrica del carbonio è seconda solo a quella dell’argento, ma del senno di poi, si sa, sono pieni gli ospedali. E il terzo è Rino Zena, che oltre ad ammirare gli eroi farneticanti di Un pomeriggio di un giorno da cani e di Taxi driver e condividerne il risentimento, che li smaschera, verso la «spazzatura umana», espone una bandiera con la svastica in camera da letto e di certo non perché every woman adore a fascist, come diceva Sylvia Plath. Alcolizzato e violento eppure, come noir comanda, umano e a tratti persino affettuoso, Rino impone le proprie idee al figlio Cristiano fin dalla prima scena, durante la quale, ubriaco, gli mette una pistola in mano e gli ordina di andare a uccidere un cane che abbaiando in un vicino capannone industriale non gli permette di addormentarsi.
Cristiano è il protagonista del romanzo. A 13 anni è l’ultimo della classe e rischia di essere tolto al padre dall’assistente sociale, che ogni due settimane perlustra casa Zena per controllare che non vi siano siringhe buttate sul tappeto, che le lattine di birra vuote non oltrepassino un certo numero e che le condizioni igieniche non minaccino colera. È «il giorno della bella figura»: padre e figlio sono costretti a riassettare e a comportarsi bene.
Attorno ai personaggi principali ruotano i minori: per esempio una coppia di ragazzine bellissime, piuttosto drogate e già esperte delle cose della vita. Una delle due, naturalmente, finirà molto male. Perché il noir, come suggeriscono gli appassionati del genere, dà voce al punto di vista di Caino, il quale però coincide con quello della nonna: chi tira tardi la notte, giace stuprato e ucciso in fondo a un bosco. Anzi, la morbosa vicenda dell’uccisione della giovane occuperà tutta la seconda parte del romanzo, che ha una struttura bina (la rapina per i maschietti, la famiglia in lacrime per le femminucce) e un finale, più che aperto, irrisolto. Aspetti che non pregiudicano il funzionamento della macchina narrativa, ben incardinata alle micro-storie dei singoli paragrafi, accuratamente intrecciate e tonificate dai più comuni trucchi del mestiere: la scrittura ipnotica, i personaggi fatti pencolare sul vuoto, il vedere come reagirà un padre quando gli diranno che la figlia è stata assassinata, e così via.
Dominato dalla paura di lasciarsi scappare il lettore, Come Dio comanda testimonia l’avvenuta dispersione del capitale letterario di Ammaniti, già molto esiguo. Scomparsa la minima traccia di stile, il romanzo potrebbe essere stato redatto da chiunque. Nonostante la violenza, il linguaggio crudo, il compiacimento nel soffermarsi su dettagli sgradevoli e urtanti; nonostante la vecchia scusa secondo cui è il genere a escludere ogni pietas e ogni denuncia morale o sociale, siamo di fronte all’opera di un funzionario in doppiopetto. E pazienza se per sventare un flop bisogna diventare l’uomo invisibile e scrivere un romanzo massa per un pubblico massificato. Tanto, ormai l’hanno capito anche i muri: i dati sulle vendite sono inversamente proporzionali alle peculiarità del narratore. Meglio assumere connotati di bambola, meglio non farsi riconoscere.
Alla domanda su chi scriva questi romanzi bisogna rispondere come il ciclope: li scrive Nessuno. Li scrivono degli «addetti al romanzo» che hanno il compito di trasformare, su mandato dell’industria editoriale, il bric-à-brac delle scuole di scrittura creativa in materiale segnico. E se per riuscire devono distruggersi in quanto autori, pazienza: per combattere la spersonalizzazione basterà rilasciare interviste in cui ci si sofferma sulle proprie idiosincrasie. Gusti musicali, stile di vita, roba così.

Chissà se Ammaniti è consapevole del fatto che la propria rinuncia a essere un individuo si estende al lettore. Chissà se lo impensierisce insegnare indirettamente a migliaia di persone che non c’è passione senza cattura e senza manipolazione.

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